pubblicato sul manifesto il 15 gennaio 2019 –
Non leggo spesso – confesso – Alessandro Baricco, ma la discussione aperta dal suo articolo sulla Repubblica di venerdì scorso (E ora le élite si rimettano in gioco) merita attenzione. Magari andando a ridarsi un’occhiata a testi che non da ora trattano il tema, dalle teorie di Gaetano Mosca (importante per la cultura politica non solo italiana, e un conservatore di destra che firmò nel ’25 contro il fascismo), ai libri di Cristopher Lasch: non solo la famosa analisi sul narcisismo contemporaneo, ma anche studi come Il paradiso in terra. Il progresso e la sua critica o La ribellione delle élite. Il tradimento della democrazia, entrambi riediti da Neri Pozza. Osservando la società americana decenni orsono, Lasch aveva già visto le dinamiche che hanno portato a Trump e a tutto il resto. Il suo campo di osservazione era però mirato a una parte ben delimitata delle élite : i democratici e la sinistra USA con il suo retroterra sociale e culturale.
Ecco che commetto l’errore elitario tipico (essendo un giornalista e possedendo – ahimè – più di 500 libri, la favola parla di me): bisogna agire e reagire, e invece mi trastullo con citazioni intellettuali…
Ma ciò che segnala l’autore di The Game – diciamo la verità – non è proprio una sorprendente scoperta. Che la “gente” abbia divorziato da partiti, istituzioni, corpi intermedi, autorità professionali varie lo osserviamo da almeno un trentennio (già negli anni ’80 si parlava di “crisi della rappresentanza”). E che questa sorta di deriva sociale carsica sia stata aiutata e in parte prodotta dall’esplosione dei media digitali, anche questo è noto.
Le domande penso siano altre: perché politici e intellettuali non hanno saputo reagire adeguatamente? E come si esprime, si differenzia e si articola la “rivolta” della “gente” che, imbracciando lo smartphone – e qualche volta mazze e petardi incendiari – cerca di “fare da sé”?
Ecco. Leggendo Baricco – sarà colpa mia – non ho trovato spunti illuminanti per rispondere a queste domande. Le ingiustizie sociali, certo. Ma dove nascono? E – come è stato osservato (vedi Mariana Mazzucato sempre su Repubblica) – ci aiuta la polarizzazione secca e generica tra “gente” e élite?
Che cos’hanno in comune i “No Tav” e le “madamine” torinesi, al di là del volersi attivare autonomamente? E i Gilet Jaunes con i tanti gruppi che formano catene di consumo alternativo dedicandosi a coltivazioni “bio” e rifiutando lo sfruttamento della manodopera, per lo più straniera? O ancora: che cosa ci dicono le donne francesi che hanno indossato il gilet giallo anche contro la violenza dei manifestanti maschi? E i cortei di Non una di meno sono forse assimilabili all’attivismo di Casa Pound o Forza Nuova?
L’altra sera, alla terza o quarta volta che sentivo Salvini definire Cesare Battisti “assassino comunista” ho cambiato canale. Benissimo che un criminale condannato sia dopo tanto tempo assicurato alla giustizia. Ma il ministro dell’interno italiano non dovrebbe sapere che tale insistenza provocatoria può ferire tanti suoi concittadini per i quali la parola comunista è legata a una storia di emancipazione e di battaglie democratiche?
Salvini fa parte di una élite neppure nuovissima (la Lega è il più vecchio partito di governo del paese). Se insiste sulla “parola maledetta” col cipiglio da tribuno machista, dovrebbe spingerci a indagare con nuove lenti i conflitti di classe e di sesso della nuova epoca. Le parole femminismo e capitalismo non si leggono nella parabola sulla rivolta della “gente”. Certo sono cariche anche di ambiguità ideologiche. Ma non ci sarà alcun positivo “rimettersi in gioco” se si sceglie di rimuoverle