Pubblicato sul manifesto il 6 novembre 2018 –
Ho pensato qualche volta che il modo più vero di impiegare la propria vita per un uomo sia quello di dedicarsi alla creazione artistica, oppure al “mestiere delle armi”. Nel primo caso – è la mia fantasia – si rifiuta il destino che sembra legare il maschile a un corpo a corpo con la forza materiale e la violenza. E anche a una relazione molto complessa con il dare vita, il mettere al mondo. Creare qualcosa che abbia una valenza estetica, che si offra allo sguardo, ascolto, intelligenza e sensibilità altrui, senza dettare una legge, mi sembra un modo migliore di elaborare l’invidia per la capacità generatrice di una donna. Rispetto alle pretese antiche e attuali (anche se in evidente crisi) di generare ordinamenti sociali, ideologie, gerarchie, potere.
Nel secondo caso si tratta di prendere “di petto” la questione della guerra. Di sottoporsi a una disciplina che comprende l’uso più o meno legalizzato della violenza, e degli strumenti per esercitarla, vivere questa condizione, in costante presenza sul limite della morte di altri e della propria, con la più profonda consapevolezza. Anche per comprenderne i meccanismi psicologici, culturali, e magari trovare una buona volta le strade per uscirne.
Da giovane, negli anni in cui si fronteggiano scelte radicali (almeno così ci appaiono) e si elaborano quei pensieri che – per poveri che siano – finiscono per determinare un po’ tutta la nostra vita, mi sono trovato in qualche modo a valutare queste due opzioni. Sentivo una vocazione al disegno e soprattutto alla musica. Ma erano tempi in cui sembrava in atto una rivoluzione politica: un movimento che coinvolgeva le nostre esistenze, i nostri desideri, e chiamava all’impegno. Ben oltre quello di una “militanza” artistica. Fino a una ipotizzabile resistenza armata contro i pericoli di “colpo di stato” o di insorgenza fascista. (Stragismo e attivismo squadrista non erano un’invenzione). Apparvero poi i gruppi che teorizzavano la violenza, e la P38, proprio per “fare” la rivoluzione. E le Br.
Compresi subito che quel tipo di “mestiere delle armi” non era la mia strada. Ho sempre aborrito qualsiasi forma di violenza. Tuttavia ho provato, per un momento, qualcosa di simile all’accettazione di una disciplina collettiva, al dovere di non arretrare di fronte al rischio di un combattimento. Negli stessi anni ho fatto il servizio militare: con qualche commilitone “compagno” si scherzava sul fatto che poteva essere anche utile imparare a maneggiare il pesante Garand, il fucile americano imbracciando il quale andavamo al poligono di tiro.
Ho visto con quanta facilità un’idea di mondo e di giustizia possa legittimare nella mente di un uomo il ricorso alla forza. E quanto spesso questo si mescoli con il piacere schiettamente fisico dello scontro.
Poi il mio mestiere è stato quello di raccontare e descrivere la scena della politica e della realtà sociale – qualche volta della creazione artistica. Ho molto amato il giornalismo politico. Però in fondo considerandolo, o quantomeno vivendolo, come una posizione importante ma nelle retrovie.
Volevo dire qualcosa sui cento anni che ci separano dalla fine della Grande Guerra. Evitando la retorica della vittoria ma anche quella dell’antiretorica. Furono molti gli italiani che cercarono di non farla, quella guerra, pagando spesso con il carcere e con la vita l’opposizione e la diserzione. Ma tanti anche quelli per i quali fu un’esperienza voluta, accettata, vissuta “positivamente” anche se tragicamente.
Per vincere sulla guerra, partire dall’amore che sa suscitare?