Dopo i porti chiuderemo gli aeroporti. Poi chiuderemo porte e finestre, tirando le tende. Che non entri la pioggia e nemmeno il sole. Resteremo soli nella penombra della nostra riordinata sicurezza.
O forse succederà qualcosa di peggio?
Non mi convincono gli allarmi sulla replica degli anni ’30. Ma leggiamo Adriano Sofri sul Foglio di ieri (L’ombra del ventennio) e la sua conclusione: «…le cose cambiano e anche bruscamente, e profondamente (…) Ieri non si poteva sparare ai neri e vincere le elezioni. Oggi un ex candidato della Lega spara ai negri e la Lega ha vinto le elezioni. Anche le nostre vite personali, ci sono giorni, ore, che le cambiano. Diventiamo altri. Il popolo italiano è diventato altro». Il presente ci aiuta a capire come si formò quella «repentina onda alluvionale che rese l’Italia del 1938 fanaticamente, ferocemente e vilmente razzista».
Dove volgere lo sguardo per trovare anti-corpi?
I diecimila a Riace, i centomila da Perugia a Assisi. I giovani che hanno “armato” la nave Mediterranea… Ma non solo.
Anche per motivi “di campanile” (o meglio, di Lanterna) mi ha colpito l’intervista sul Sole 24 ore di domenica di Angela Manganaro a Massimo Valsecchi. Un’amica in visita a Palermo mi aveva descritto un albero di Jacaranda in un palazzo del centro storico in via di restauro. Era affascinata dal fatto che le radici dell’albero erano visibili attraverso il vetro sul pavimento. Una si dirigeva, forte e sicura verso la sorgente d’acqua. L’altra, più esile e incerta, andava in cerca della linfa vitale senza trovarla e tornava indietro.
E’ il palazzo Butera, acquistato nel 2015 da Valsecchi, che vuole farne un museo, un luogo d’arte e di scienza, aperto al mondo, un passaggio tra la Kalsa e il mare. Il volto di Valsecchi, occhi a fessura e sguardo appuntito, un sorriso appena accennato, ironico e malinconico, mi sembra tipicamente genovese. Come la sua biografia di uomo ricco e colto: broker, studioso di design industriale, raffinato collezionista insieme alla moglie Francesca. Una vita tra Genova, Londra, il resto del mondo, ora approdata a Palermo. «Sono stato una persona privata per tutta la mia vita – dice di sé – se parlo adesso è solo per il progetto». Molto ambizioso, giacchè mira a «realizzare ciò che la politica e l’economia non riescono più a fare, dare un punto, un’idea di futuro». A partire dalla «bellissima Sicilia e dalla straordinaria Palermo», strangolate da «cent’anni di inerzia, malaffare, mafia, malgestione», ma forse in grado di recuperare e reinventare una antica identità internazionale. Mi è piaciuto che l’intervistato abbia trovato «un grande segno di civiltà» tuttora vivente nel fatto che a Palermo si sforni il pane fino a sei volte al giorno.
Papa Francesco ha scritto: l’élite che «non sa cosa significa vivere nel popolo» commette un peccato «che piace tanto a Satana». Parole sante. Tuttavia guai a farsi un’immagine indistinta dell’élite e del popolo.
L’accenno al pane del genovese Valsecchi, che non conosco, mi ha ricordato le colazioni mattutine del marchese comunista Giorgio Doria, che ho avuto la fortuna di conoscere. Una striscia di focaccia e un bicchiere di vino bianco, in piedi al banco del bar. (La squisita, irriproducibile altrove, focaccia della mia città!).
A volte fantastico di una Lega delle città di mare, italiane e no (qualche tentativo, troppo debole, si è fatto). Luoghi dove si sa che le radici sono un divenire e non un legame che pietrifica. Possono anche far rinascere se ripiantate altrove. Dove si ama la luce e si vive tutti un po’ stranieri. Una Lega di donne e uomini del popolo, ma accogliente per persone ricche e colte, se bene intenzionate.