Pubblichiamo l’intervento di Letizia Paolozzi al convegno “IO, SONO ancora MIA?”, (Gestazione per altri o maternità surrogata: Il difficile cammino delle donne tra abolizione, regolamentazione o/e autodeterminazione) che si è tenuto a S. Donà di Piave il 29 ottobre 2017 , presso il Centro Culturale L. Da Vinci, per iniziativa delle donne di Snoq di San Donà. Al confronto hanno partecipato anche Francesca Izzo, filosofa e scrittrice, Ida Parisi, avvocata, Cristina Gramolini, presidente ArciLesbica, Giulia Siviero, femminista, giornalista del Post e attivista di NUDM (Non Una Di Meno) ,Ester Micalizzi e Mara Grasso, studentesse di sociologia, del dipartimento Culture, Politica e Società, dell’Università degli Studi di Torino.
Grazie alle donne di Snoq di San Donà per avermi invitata a una discussione dalla quale sicuramente avrò molto da imparare. Anche perché, come scrive Rebecca Solnit nel suo ultimo libro, parlare di noi, cioè di donne, contiene già in sé un’azione di trasformazione.
Vediamo dunque se questa azione di trasformazione possiamo intravederla anche nel duro conflitto che c’è tra di noi sulla Gestazione.
Proverò a spiegare la mia posizione che non è di rifiuto assoluto ma neppure di adesione incondizionata, intanto dicendo che “la vastità del tema” (Anna Maria Bardellotto) consiglia di prestare ascolto alle affinità e alle differenze, evitando l’atteggiamento di sicurezza morale che sfiora la sicumera.
Non mi fido degli schieramenti che si vengono disegnando. Di qui l’aver lavorato assieme al gruppo delle femministe del Mercoledì a “Mamma non mamma” (supplemento di Leggendaria n.123/2017) nonché a un incontro pubblico (dal titolo: “Curare la differenza. Tra gender, generazione, relazioni sessuali e famiglie Arcobaleno”), che aveva alla base un testo composto non di tesi predefinite ma di interrogativi sul desiderio di maternità e di paternità; sulla frontiera sfuggente tra sfruttamento, condivisione e solidarietà (logiche del mercato e sentimento del dono); sulla paura di genitori di non poter circolare con i loro bambini “invisibili”: senza passaporto, senza identità, senza una sicurezza per il futuro.
Dello schieramento che respinge la Gpa è parte attiva il femminismo della differenza. Un femminismo che per me è stato importante. Penso alla Libreria delle donne di Milano che questa soggettività l’ha dissodata con audacia e autonomia. E penso al “Primum vivere” dell’ incontro di Paestum (nel 2012), focalizzato sulla politica delle relazioni.
Adesso però la politica delle donne, quella che metteva al centro la differenza sessuale, mi appare difensiva. Ischeletrita. Tesa a proteggere il modo in cui abbiamo inteso la differenza nel passato.
C’è un’aggressione, una tendenza alla neutralizzazione dei rapporti, alla moltiplicazione dei “generi”? Allora, non mi sembra per nulla efficace rispondere alzando muri, atrofizzando i tentativi di accogliere il divenire delle identità sessuali e dei desideri radicati nel corpo vivente.
La differenza sessuale si sposta, e dunque la ricerca oggi consiste nel darle nuovo senso, nel nominarla diversamente. Sennò finirà per essere giudicata una mera declinazione della “eterosessualità normativa patriarcale” dalla quale conviene staccarsi.
Lo ripetono ragazzi e ragazze di Nudm che si riferiscono al femminismo come a un movimento plurale, in grado di comprendere il mondo LGBT.
Mi dispiace che il discorso sulla differenza non sia attraversato da un po’ di quella libertà, di quella generosità che ci ispirava quando eravamo convinte che avremmo “messo al mondo il mondo”.
Adesso, invece di uscire fuori, ci asserragliamo dietro la maternità, la biologia, l’organo riproduttivo femminile. Vogliamo divieto e proibizione della Gpa.
Perché succede?
Perché ci sentiamo in un mondo senza protezione. La paura, il rancore, l’incapacità di avere cura, di cooperare, provocano una regressione generale. In un periodo di forti incertezze, con il crollo dei partiti, i vari tipi di populismo, le ansie di secessione, di separazione, la presenza degli attentati terroristici che sono guerre a bassa intensità, massacri di umanità, contigui all’uccisione delle donne, al femminicidio anch’esso una guerra pur senza comunicati dell’Isis, da un lato ci aggrappiamo alla legge, all’astrazione della norma, fino all’interpretazione normativa della libertà che evidentemente rappresenta un terreno rassicurante; dall’altro ci procuriamo (come dice la mia amica del Gruppo del mercoledì, Fulvia Bandoli) una sorta di riparo – e di chiusura – nello spazio concavo del ventre materno.
Senza contare che la richiesta di interdizione della Gpa prescinde dalla globalizzazione la quale, in realtà, sposta di continuo i confini del mercato: dall’India all’Ucraina, dalla Repubblica Ceca alla Russia.
Peraltro, nella globalizzazione c’è una immagine doppia dl femminile: la prima è quella della donna emancipata, che si appoggia a un contratto per avere figli per altre/i; la seconda si riferisce alla donna povera, una specie di schiava che vende la sua forza-lavoro, il figlio, ad altri.
Nei documenti ufficiali della Eu spesso le donne sono raccontate come vittime impotenti, schiacciate in una condizione generalizzata di vulnerabilità. Eppure la vulnerabilità non è sinonimo di debolezza ma elemento umano da accogliere.
Infine, io credo che nel radicalizzarsi degli schieramenti entri in gioco la questione del linguaggio. Nella sua spesso insopportabile violenza. Mentre il linguaggio femminista ha sempre provato a destrutturare, analizzare, provocare la riflessione dissuadendo dai conformismi, ora sta imboccando la via della semplificazione che promette l’apparente chiarezza e semplicità della rappresentazione: amica/nemica.
Mentre, in realtà, il linguaggio assorbe le modalità essenziali della comunicazione televisiva, soprattutto quelle che trasformano la discussione politica in discorso polemico, scontro, duello, producendo un’incapacità di simbolizzazione, una sorta di eccitazione polemica del discorso, aiutato dal meccanismo dei social che spinge al botta e risposta in tempo reale, senza la complessità e ricchezza dei toni e degli sguardi in presenza.
Con questo linguaggio poco ospitale che rompe invece di produrre relazioni, chi sulla Gpa ha una posizione che non è No no o Sì sì, viene tacciata di “ pluralismo irresponsabile” mentre la pratica di mettere a frutto il proprio ventre, va esclusa sempre e comunque. Qualsiasi dubbio deve essere ricacciato nella casella del “relativismo”.
Probabilmente, qualcuna teme che le biotecnologie, le ricerche sul Dna strappino la potenza del generare alle donne, rimettendola in mani maschili. Ma non è appunto l’indiscutibile potenza del materno ad aver allargato la qualità del prendersi cura anche a un certo numero di uomini?
Intorno alle relazioni con gli uomini e tra di noi, dobbiamo continuare a scavare. Dal momento che siamo esseri cangianti, in movimento rispetto al mondo della produzione e della riproduzione (che comprende quella della specie), non è possibile decidere una volta per tutte né pretendere che venga legittimata una posizione quasi fosse l’unica in campo puntando sulle ragioni che confermano ciò in cui già crediamo.
Scrive Virginia Woolf (in “Voltando pagina. Saggi 1904-1941” a cura di Liliana Rampello) che “quando le parole vengono inchiodate a un unico significato, ripiegano le ali e muoiono. In conclusione, e con più veemenza, proprio come noi, le parole, per vivere a loro agio, hanno bisogno di agire per conto proprio. Senza dubbio a loro fa piacere che noi sentiamo e pensiamo prima di usarle; ma vogliono anche che ci concediamo una pausa”.