All’interno della mostra “Con gli occhi di Mario”, Cento scatti di Mario Riccio per L’Unità (dal 20 ottobre all’8 novembre), che si tiene a Napoli, nell’Antisala dei Baroni del Maschio Angioino, Gianfranco Nappi, direttore del bimestrale “InfinitiMondi” ha organizzato una serie di dibattiti. Tra questi la presentazione di “Gerardo Chiaromonte una biografia politica” di Gianni Cerchia. Sono intervenuti venerdì 3 novembre il sindaco Luigi De Magistris, Salvatore Vozza, Ugo Sposetti, Letizia Paolozzi e Franca Chiaromonte delle quali riportiamo gli interventi.
Franca Chiaromonte – Quando alla fine parlò di amore
Su mio padre “migliorista”, su questa parola, aggettivo, attributo, dato ineliminabile nella vita politica di Gerardo, c’è traccia nel libro che ho scritto assieme a Fulvia Bandoli: Al lavoro e alla lotta, le parole del Pci.
…Il migliorismo sosteneva la necessità di graduali riforme, praticando una politica socialdemocratica, che non si opponesse in modo frontale al capitalismo. Tra gli esponenti principali Giorgio Napolitano, Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso. I gruppi più nutriti erano in Sicilia, a Milano, Venezia, Napoli e in Emilia. Era la cosiddetta destra comunista.
Li ricorda con affetto Valentino Parlato al quale piaceva più “la rozzezza di un Amendola o di un Chiaromonte, compagni che non avevano paura neppure dello scontro fisico o quello strano misto di sicilianità e schiettezza di un Macaluso, piuttosto che la distanza e la diplomazia di un Napolitano”. Loro, se proprio dovevano essere etichettati, preferivano essere chiamati riformisti. L’area politica opposta ai miglioristi era la Sinistra del Pci. La differenza di strategia politica tra queste due aree fu reale. Tra Ingrao e Amendola per fare l’esempio più illustre, ma anche tra noi due. L’una si ritrovava spesso d’accordo con l’area riformista, l’altra con la Sinistra Pci. Ma non ci siamo mai prese a pesci in faccia”
Nel descrivere le passioni politiche di mio padre, e dell’uomo che non si sarebbe mai stancato del poeta Giacomo Leopardi, devo riconoscere che coltivava un’altra passione: l’ intemperanza alimentare.
E’ l’amico di sempre Carlo Fermariello a collocare Gerardo a metà strada tra le proprie intemperanze, a cominciare da quelle alimentari, e la temperanza di Giorgio Napolitano che è sotto gli occhi di tutti.
All’opposto, l’editore e animatore culturale Gaetano Macchiaroli, con la sua assoluta magrezza in contrasto con la stazza di papà e Giorgio Amendola (terribili entrambi, quanto a peso sulla bilancia).
L’altro amico e sodale umano e politico di mio padre è Emanuele Macaluso. Siciliano di poche e lapidarie parole, pur senza arrivare ai silenzi di Pio La Torre, che al telefono si presentava: “La Torre parla” e poi taceva lasciando a chi aveva risposto l’onere di tenere la conversazione: “Ciao Pio sono Franca, come stai? No, papà non c’è ti faccio richiamare” mentre lui taceva ostinatamente.
Anche mio padre era un uomo taciturno e di vecchia scuola comunista. Di certi argomenti non parlava mai in famiglia.
Per non perdere il legame con la sua città si rifaceva agli intellettuali e agli operai (di Ponticelli, Bagnoli, dei cantieri di Castellammare) più che al partito.
Quel partito che ha preso tutto a Gerardo (e lui glielo ha regalato quel tutto).
Certo, mio padre ebbe forti dissidi nel gruppo dirigente del Pci ma fu considerato sempre con rispetto per il modo che aveva di discutere. Per esempio, si scontrò con Enrico Berlinguer, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con il giustizialismo e la purezza comunista e le insidie che questo tipo di posizioni portavano con sé.
Altri e altre da Natta, a Tortorella, Castellina, Ingrao, Iotti, Rossanda, si sono confrontati con lui (a volte un po’ troppo nel segreto delle stanze di Botteghe Oscure, ma sempre meglio che solo a distanza attraverso i media come avviene adesso) e magari aspramente combattuti.
Ho accennato ai rapporti nel gruppo nazionale del Pci.
Quanto al partito di Napoli, come ogni cosa di questa strana città, è sempre stato attraversato da crisi profonde: una tira l’altra, come le ciliegie (si dice a schiocche a schiocche).
Proprio per aiutare il partito ad uscire dalle sue difficoltà, Gerardo parlava e ascoltava chi nel partito non c’era. D’altronde Napoli è una città brulicante di stimoli, di suggestioni.
Se fossero cancellati tutti gli intellettuali napoletani dai libri scolastici, se dovessero fallire tutti i musei napoletani, Napoli continuerà a produrre cultura, con le canzoni, con le poesie, con i romanzi e – perché no? – con le stazioni della metropolitana.
Il lessico famigliare di mio padre è stato intimo. Segreto. Pur avendo moltissimo affetto per me e per Silvia. E per mia madre Bice che della nostra famiglia ha parlato, anche lei con pudore, nel libro “Donna, ebrea, comunista”.
Mi considerava “la più scocciatrice” e quella che si attirava l’accusa di essere “una settaria” per via della mia passione per il femminismo. Mi diceva “vai a prendere la linea?” quando gli chiedevo di accompagnarlo a Milano dove c’era e c’è la Libreria delle donne che lavora da decenni sul pensiero della differenza sessuale.
Ricordo però a tutti noi che mio padre nel suo ultimo intervento al cinema Adriano parlò dell’amore. Amore per il partito, per la politica e per Napoli. Una parola che non aveva mai usato forse per timidezza rispetto a quello che sentiva e che teneva chiuso dentro di sé.
Letizia Paolozzi – L’apertura dell’ingegnere “storicista incallito”
Prima di venire a Napoli per quest’iniziativa di Gianfranco Nappi, mi sono riguardata l’intervista che Gerardo Chiaromonte diede a me e a Alberto Leiss per il nostro libro Voci dal quotidiano (L’Unità da Ingrao a Veltroni).
C’è una frase rivelatrice, all’inizio dell’intervista: “E come mi è sempre capitato nella vita, attaccai il carro dove voleva il padrone”
Ironia, ammissione a mezza voce, ma anche verità di un uomo della vecchia guardia (come si andava ripetendo nel Partito) ma soprattutto di un uomo fedele al Pci (togliattiano, si mormorava con disprezzo), al Mezzogiorno, all’unità nazionale che difese ossessivamente.
Laureato in Ingegneria, ne faceva un punto di forza. La sua soluzione per i mali del Sud, d’altronde, era quella di un uomo con un orientamento di politica economica volto a potenziare lo sviluppo industriale.
Detestava le battaglie astratte, la cultura che in seguito con il ”pensiero “debole” avrebbe aperto al post moderno.
Quanto all’unità nazionale, i brividi che la scuotevano erano messi in scena dalle manifestazioni dei Cobas, dei piloti, dei macchinisti, dei camionisti, dalle marce antifisco. A dimostrazione di una
crisi della rappresentanza sempre più profonda.
Sentiva drammaticamente il problema dei rapporti tra Nord e Sud del paese. Un’intervista come quella del leghista Miglio che minacciava di sparare, fece sì che Gerardo osservasse: “Non si spara perché per fortuna non siamo ancora a questo punto ma le basi per avvenimenti che travagliano anche altre nazioni ci sono tutte. Non solo nel Nord ma anche nel Mezzogiorno in funzione anti-Nord”.
“Le basi per avvenimenti che travagliano anche altre nazioni” non vi fa pensare a ciò che avviene oggi in Catalogna?
Gerardo diceva di sé: “Sono uno storicista incallito”. Certo, questo significava che se la storia è quella, lì bisogna stare. Senza utopie. Senza eccessi. Ma sarebbe bastato ad affrontare le contraddizioni che si addensavano sull’ Italia e sul Mezzogiorno?
Sia chiaro. Gerardo non era un uomo immobile. Ma curioso. Voleva ascoltare gli altri benché di opinioni opposte alle sue. Tanto è vero che, sotto la sua direzione, l’Unità cambiò. Nella veste grafica come nei contenuti.
Scomparve la parola “organo”, sostituita da “giornale” del Pci.
Nel periodo della sua direzione venne pubblicata l’intervista a Dubcek che ebbe una risonanza mondiale. Rispetto al giornale e al rapporto sempre complicato con il Partito, alle rivendicazioni di “autonomia” della redazione, Gerardo tenne un ruolo di mediatore “prudente”. Funzionava da cuscinetto per bloccare ogni mattina i lamenti di Pajetta “il torturatore”, le precisazioni telefoniche di Napolitano.
Convinto sostenitore del valore della discussione, del confronto tra idee, c’era in lui una sorta di remora, un elastico che si allungava e poi lo tirava indietro fino a concludere “Ma io resto della mia idea”.
Ricordo che ero andata nell’82, appena esplosa la peste dell’Aids, a San Francisco. Volevo pubblicare una pagina sulle sofferenze ma anche sull’orgoglio degli omosessuali. Non gli sembrava un tema adatto all’Unità. Alla fine io vinsi ma lui concluse appunto: “Resto della mia idea”.
Credo che fosse profondamente illuminista. Tuttavia l’illuminismo napoletano si è rivelato in ritardo ad affrontare il quadro di una Napoli che dal dopoguerra degli equilibri sociali oltre che economici, è passata alla crisi della fabbrica fordista e poi a una disgregazione che spesso riesce a nascondere la spinta delle tecnologie, delle maestranze artigiane, della creatività musicale, letteraria, cinematografica, teatrale.
Di fronte a quel “Giano Bifronte” (prendo a prestito la definizione dal libro di Paolo Frascani su Napoli) che è questa città da una parte plebea, plumbea di Gomorra e dall’altra decisa a difendere e rilanciare il proprio patrimonio artistico, il settore manifatturiero in provincia, il turismo internazionale, l’ insediamento della Apple, che cosa avrebbe potuto proporre un grande intellettuale meridionale come Gerardo?
Si trattava di combattere quella “terribile potenza del negativo” (direbbe Ernesto De Martino) che trascina con se una domanda di protezione e le connivenze, complicità, di chi cerca di sbrogliarsela poiché tutto va di traverso e non hai prospettive, certezze sul futuro.
Infine, Gerardo era particolarmente attento ai rapporti magistratura-politica. Difendeva l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati e però combatterà praticamente da solo contro le sbavature di Mani Pulite e quelle dei giornali.
Sull’uso politico della giustizia fu assai sensibile e questa sensibilità segnò il suo periodo di presidenza alla Commissione Antimafia.
In tempi come questi, dove la polemica, lo scontro, l’ingiunzione a stare o di qua o di là, la semplificazione linguistica e l’uso della violenza sono di casa, chi, come Gerardo, è aperto alla discussione, al metodo comunicativo, leale, ci manca molto.