Pubblicato sul manifesto il 7 novembre 2017 –
Quasi tutti sanno che la Rivoluzione d’Ottobre, intesa nel suo culmine insurrezionale con la “presa del Palazzo d’Inverno”, avvenne in realtà tra ieri e oggi, 7 novembre, un secolo fa. Allora vigeva in Russia il calendario giuliano – subito abrogato dai bolscevichi – e queste date equivalevano al 24 e 25 ottobre.
Ci capita di ricordarlo mentre le elezioni in Sicilia, stando ai risultati in tempo reale dello spoglio – che leggo mentre scrivo – danno le destre al 39,2, i grillini al 35, il Pd al 18,8, e la sinistra alla sinistra del Pd al 6,3 (a più della metà delle sezioni).
Questi risultati preoccupanti – Emanuele Macaluso ha parlato ieri sul Corriere della sera di “disfatta” e di una sinistra “totalmente” priva di cultura politica – fanno pensare ai decenni seguiti alla definitiva implosione dell’esperimento sovietico (1989), trascorsi all’insegna delle abiure, delle rimozioni, delle consolazioni nostalgiche.
Un decennio prima della catastrofe dell’Urss il capo di quello che restava il maggior partito comunista dell’Occidente, Enrico Berlinguer, aveva affermato la fine della “spinta propulsiva che si è manifestata per lunghi periodi, che ha la sua data d’inizio nella rivoluzione socialista d’ottobre, il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca”. Sembrava già chiara e urgente la necessità di una completa reinvenzione del modo di essere e di pensare della sinistra che in modi diversi aveva un punto di origine in quell’assalto al Palazzo del Potere.
Lo ricorda Aldo Tortorella nell’editoriale del numero in uscita di Critica Marxista, intitolato appunto “La spinta propulsiva nel tempo presente”. Citando Gramsci e Rosa Luxemburg Tortorella rintraccia posizioni e comportamenti in quella che definirei la “tradizione” della politica comunista e socialista capaci di parlarci ancora oggi – e il numero di Micromega dedicato all’Ottobre appena uscito annovera sia l’uno che l’altra tra gli “eretici” di questa “tradizione” – e giunge alla conclusione che ripensare a quell’evento non significhi “lo studio di una tattica per il potere. Non il sostegno per appoggiarsi a qualcosa di già avvenuto. Il richiamo è all’ininterrotto bisogno del pensiero critico ai fini della lotta per la libertà e l’uguaglianza, per la giustizia e per la pace. Qui sta la vera spinta propulsiva nel tempo presente”.
Eppure vedo che si discute ancora sulle scelte autoritarie di Lenin come di qualcosa in qualche modo positivamente esemplare. Penso all’ultimo libro di Slavoj Zizek Lenin oggi (Ponte alle grazie): ho ritrovato invece drammaticamente toccanti proprio gli ultimi scritti di Lenin qui ampiamente raccolti. Il capo bolscevico che ha puntato tutto sulla “dittatura del proletariato” esercitata dalla élite di un partito unico, è alla ricerca quasi disperata di una qualche forma di contropotere “esperto” che possa contrastare dall’interno la deriva burocratica che già mina il giovanissimo stato sovietico. Un proposito ormai impossibile.
Una delle due ultime lettere, “rigorosamente segrete”, è indirizzata a Stalin, piena di risentimento perché aveva “insolentito” con “grossolanità” contro sua moglie, a proposito del contrasto con gli oppositori Zinov’ev, Kamenev, Trockij, questione che Lenin, ormai malato, seguiva “con tutto il cuore”. “Non c’è bisogno di dire – concludeva Lenin – che ciò che è fatto contro mia moglie lo considero fatto anche contro di me. Perciò vi prego di riflettere e di farmi sapere se acconsentite a ritirare le vostre parole e a scusarvi o se preferite rompere i rapporti fra noi”.
Il politico sconfinava inesorabilmente nel personale.