Pubblicato sul manifesto il 21 novembre 2017 –
È la settimana del 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, e il contesto non è solo quello delle tante, troppe cronache di aggressioni subite da parte di maschi possessivi, incapaci di riconoscere e accettare la differenza e la libertà dell’altra. È anche il momento di una presa di parola globale delle donne contro comportamenti della sessualità maschile spesso sopportati in silenzio perchè tutto sommato considerati “normali” negli ambienti in cui si verificano. La lussuosa camera d’albergo di un potente produttore cinematografico a Hollywood, come lo sgabuzzino della piccola impresa dove l’oscuro “padroncino” estorce qualcosa alla giovane da assumere, esercitando anche lui la sua quota di potere.
La discussione si allarga e si approfondisce, dal cinema le denunce e lo scandalo dilagano nella politica ( in Inghilterra e negli Usa, ma non solo) potenzialmente non c’è luogo di lavoro, università, parlamento o palestra dove il meccanismo non possa ripetersi.
Molte parole, maschili ma anche femminili, riguardano i dubbi sul fatto che una denuncia giunga dopo anni o decenni da quando la molestia o la violenza è stata commessa. Mi pare che su questo abbia ragione Elisabetta Rasy: non si tratta di guardare al ritardo di anni o decenni con cui una donna afferma di avere subito una violenza, ma a quello dei secoli che ci sono voluti perché questa presa di parola femminile avvenisse, rivoltandosi contro una lunghissima supremazia maschile (sulla Domenica del Sole 24 ore, Il lungo silenzio che ferisce le donne<). Mi convince meno in questo articolo l’insistenza sul “ritardo” storico femminile. La rivolta delle donne è avvenuta negli ultimi decenni, e continua a avvenire, io vedo piuttosto il “ritardo” maschile nel rendersene pienamente conto, e nell’essere capaci di modificare comportamenti e linguaggi.
Forse il caso Weinstein può essere un’occasione anche per noi. Lo dice Luisa Muraro citando un articolo di Laurie Penny ( sull’Internazionale 1229) a proposito del “consenso” che sembra così difficile riconoscere e esprimere nell’incontro erotico tra un uomo e una donna. Certamente non per caso nel gruppo di condivisione di uomini a cui partecipo (“maschile in gioco”, a Roma) si è nei giorni scorsi discusso dello stesso argomento, partendo però da un altro interessante articolo sul tema del “consenso” scritto da un uomo (7 motivi per cui così tanti uomini non capiscono il consenso sessuale, di Jason Pargin, se ne trovano ampi stralci sul sito www.maschileplurale.it).
Sono due testi lunghi, ma consiglio agli uomini di leggerli e di meditarli entrambi, e soprattutto di provare a discuterli con altri maschi. Quindi, se le trovano, con donne interessate a uno scambio.
E qui vengo alle due parole del titolo. Comportamenti e linguaggi maschili capaci di rispondere sensatamente alla rivolta femminile – che pure cominciano qua e là a emergere, persino sulla scena pubblica mediatica – credo possano venire davvero “alla luce” se si moltiplicheranno pratiche di condivisione tra uomini diverse, per intenderci, delle chiacchiere al bar sport, dalle piccole o grandi smargiassate sulle proprio prestazioni sessuali, dalle connesse e per lo più grottesche competizioni di potere, e se questa ricerca di una maschilità non maschilista, saprà anche raccontarsi sempre meglio, dar luogo, come si usa dire, a una narrazione.
Mi è capitato di avere interessanti scambi e nuove conoscenze a un incontro nazionale della rete di maschile plurale negli ultimi giorni. Si moltiplicano gruppi di condivisione, e le narrazioni di esperienze diverse, è emersa l’intenzione di aprire anche pubblicamente un confronto sulla sessualità maschile, augurandosi che sia possibile parlarsi tra uomini e con le donne che, oltre alla giusta denuncia, accettino il rischio di una ricerca comune.