Pubblicato sul manifesto il 3 ottobre 2017 –
Nelle mie letture disordinate e ondivaghe mi sono imbattuto in una osservazione di Lacan. E’ contenuta nell’introduzione al seminario sul desiderio (Libro VI, Einaudi, 2016), dove si parla della importanza del sol fatto di “reintrodurre” la parola “desiderio” nella discussione sull’esperienza analitica (siamo alla fine degli anni ’50, e si preferisce parlare di libido e di pulsioni). “Reintroducendola – scrive Lacan – produciamo un’impressione, non dico di rinnovamento, ma di disorientamento”.
Ciò che mi ha colpito, credo, è l’accostamento dei termini rinnovamento e disorientamento. Sono anni, per dirne una, che a sinistra si parla dell’esigenza di un rinnovamento (faccio persino parte di una associazione che si chiama appunto “per il rinnovamento della sinistra”). Ben poco, però, si manifesta qui come realmente rinnovato. Non sarà perché poco si è riconosciuto e elaborato – nonostante i decenni trascorsi – lo stato di disorientamento seguito alle catastrofi del socialismo realizzato?
Si ha paura, probabilmente, di soggiornare in questo stato. Ci si aggrappa alla prima certezza che si intravede nel proprio passato come in ipotetici futuri. Molto più arduo, faticoso, riconoscere la realtà del presente.
“Il disorientamento – ci informa wikipedia – in psichiatria si definisce come la perdita di conscio mentale relativo alla percezione spazio-temporale. Chi ne soffre non è in grado di capire e identificare in modo chiaro il tempo e il luogo reali in cui si trova”.
Certo, da questa condizione, probabilmente penosa, bisogna cercare di uscire. Ma con quali tempi, quali metodi, quali pratiche relazionali e politiche?
Ho appena avuto una discussione con una amica sull’opportunità – proposta da altre amiche comuni femministe – di tornare a una qualche “pratica dell’inconscio” per affrontare interrogativi e impasse di questa fase. Cose troppo antiche ormai, era in due parole la sua opinione.
Un detto della saggezza popolare – certamente spesso infida – esorta i precipitosi e gli incauti a “contare fino a dieci” prima di aprir bocca e parlare. Ecco, direi che quantomeno bisognerebbe imporsi, più spesso di quanto accada, una pausa riflessiva e autoriflessiva, anche senza scomodare l’Io e l’Es.
Hanno ragione i catalani desiderosi di indipendenza, o il governo di Madrid che impone con la forza il rispetto della legge? Simpatizzo con chi, per affermare un proprio desiderio che ha il volto (o la maschera?) della libertà, affronta a mani nude le cariche della polizia, e tuttavia mi augurerei che l’esitazione degli organismi europei potesse significare proprio questo. Fermiamoci un momento a riflettere prima di pronunciare solenni dichiarazioni da cui è poi molto difficile tornare indietro. Che si ripresenti in forme più o meno inedite il “diritto all’ autodeterminazione dei popoli” (caro al vecchio Lenin) può essere nelle attuali difficoltà dell’idea di Europa anche un fattore positivo di disorientamento. A patto che si trovino vie davvero rinnovate per impedire che la cosa degeneri in forme di balcanizzazione violenta.
Il giovane Renzi si è presentato baldanzosamente sulla scena politica con lo slogan del “cambiare verso”. Era molto sicuro dei nuovi orientamenti necessari al suo partito e al paese.
Purtroppo l’esito ricorda l’indimenticabile tiritera del santone testimone del dio Quelo, inventato da Corrado Guzzanti, a proposito della “grossa crisi” che già allora ci stava aggredendo: “Ti chiedi quasi quasi, e miagoli nel buio, ma le risposte non le devi cercare fuori. La risposta è dentro di te! Epperò, è sbagliata…”