La strage di Barcellona è l’ennesimo tentativo di togliere la parola, di mettere distanza dalle tragedie che raccontano di una vita spezzata e dalle contraddizioni che attraversano ogni individuo, uomo o donna che sia.
Eppure, qualche domanda, magari ingenua, simile a quelle che si sarà posta la cuoca di Lenin, bisogna continuare a farsela. Sulla Realpolitik o sulla politica, stretta tra violenza linguistica dei persecutori e fragilità della vittima perseguitata.
Primo punto: il governo italiano ha deciso di inviare l’ambasciatore Giampaolo Cantini al Cairo. Alla vigilia di Ferragosto. Contemporaneamente, la procura cairota trasmette a quella capitolina atti sulle indagini (dopo una serie di telefonate e verbali falsificati) riguardanti la morte, avvenuta tra gennaio e febbraio 2016, di Giulio Regeni, sequestrato, torturato e ucciso.
Singolare tempismo giacché poco o nulla si sa di questa morte se non che coinvolge i servizi di sicurezza del generale Al-Sisi. Pesa certo il silenzio dell’università di Cambridge per la quale il giovane ricercatore portava avanti una tesi di dottorato sui sindacati egiziani: le indagini comunque sono a un punto morto.
Gli atti, secondo le autorità italiane, indicano “un passo avanti nella collaborazione” Italia-Egitto. D’altronde, molti cosiddetti esperti consigliavano di riaprire l’ambasciata italiana al Cairo perché “dobbiamo tenere conto della realtà”. E la realtà consisterebbe nel rapporto tra Egitto e Libia (con il generale Al-Sisi protettore del generale Haftar e dunque, forse, chissà, può darsi, capace di pesare sul conflitto in Libia, di ostacolare l’Isis, di dare una mano sui migranti) nonché nelle relazioni politiche, economiche, commerciali tra Italia e Egitto. Ecco le decisioni pragmatiche, concrete che i giornali traducono con “Piaccia o non piaccia”.
Ora, nel 2016 premier Renzi e Gentiloni agli Esteri, il titolare della Farnesina da uomo d’onore richiama l’ambasciatore italiano al Cairo: “L’Italia si fermerà solo davanti alla verità” assicura. Dopo un anno, l’ambasciatore italiano torna al Cairo nei giorni in cui massima è la distrazione degli italiani con la testa rivolta al “capo n’vierno”.
Vogliamo considerarla una rinuncia oppure l’attivazione di un dispositivo importante per riavviare il dialogo con le autorità egiziane non solo in difesa degli interessi del nostro paese ma per giungere alla verità sui mandanti dell’uccisione di Regeni? E se questa è l’idea che guida la decisione del ritorno dell’ambasciatore, perché il 18 aprile 2016 si decise di richiamarlo lasciando vuota la sede cairota?
Per quanto possa apparire una posizione utopica, io credo a quei “gesti di riadattamento” (Michel Serres in Darwin, Napoleone e il samaritano Bollati Boringhieri 2017), ai cambiamenti di pratiche che tengano conto, però, anche dei sentimenti, invece di cancellarli in nome del realismo politico.
Vengo alla questione Laura Boldrini. Abbiamo letto gli insulti che le vengono buttati addosso. La violenza di cui sono intrisi è sicuramente legata al suo essere donna e al maschilismo ma anche alla deriva xenofoba crescente, che poco si distingue da quella dei suprematisti americani. Benché finora non sia, fortunatamente, cruenta e armata, nonostante che di episodi brutali (ultimo quello della donna nera incinta rapinata, percossa e insultata) siano piene le cronache.
Capisco la scelta della presidente della Camera di denunciare l’hate speech contro la diffamazione via social. Difficile però chiudere i profili e rimuovere i post. Se non dopo lungaggini infinite. A me non pare il massimo: perfino il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, scrive che “nessun patto sociale si regge solo sulla paura delle sanzioni” (sul Corriere della Sera del 18 agosto). Tiziana Cantone si è suicidata per i fotomontaggi che hanno continuato a girare (e che probabilmente sono ancora lì) dopo la cancellazione del suo video hard.
Non sono malata di neutralità o di equidistanza ma ritengo che la ripulsa e la condanna simbolica si costruiscano con altri strumenti dal ricorso al codice penale. Comunque, non mi convince l’esortazione delle amiche femministe a escludere “senza se e senza ma” le obiezioni che circolano – quando sollevate educatamente – sul comportamento di Laura Boldrini. Terza carica dello Stato, sembra le sia impossibile rimanere imparziale. Bacchetta i parlamentari con modi più autoritari che autorevoli. La sua conduzione dell’aula da luogo a infinite lamentazioni e doglianze. Sul suo essere femminista, lascia l’impressione che si riduca a declinare professioni e mestieri al femminile piuttosto che scommettere sui punti di forza delle donne.
Naturalmente, queste critiche sono distanti anni luce dagli attacchi inaccettabili, le campagne denigratorie, le vignette volgari. Gli attacchi avvengono sui social (e sì, su alcuni giornali che titillano gli impulsi più rancorosi). Allora, perché Laura Boldrini non decide di uscire dalla sfera digitale? Ha un ufficio-stampa competente e soprattutto altre forme di comunicazione di cui servirsi per far circolare il suo pensiero. Non sarebbe ”una sconfitta”. D’altronde, i social non sono l’unica forma di comunicazione e il dibattito politico non si avvantaggia granché a prediligere la sfera digitale. Prova ne sono i tweet di Donald Trump con le sue minacce di scatenare “fuoco e furia” sulla Corea del Nord. Anzi, a starne fuori, “i governanti” di Antonio Gramsci darebbero prova di essere, assieme alla comunità dei parlanti, alla ricerca di pratiche differenti per quei valori che intendono difendere.