Questa rubrica avrebbe dovuto uscire sul manifesto del 15 agosto, ma per un guasto improvviso del mio computer non fu inviata…
Per un attimo ho creduto di avere a disposizione un momento particolare di vacanza. A Ferragosto anche i giornalisti non lavorano e i quotidiani per un giorno non escono: ma – ecco il dubbio – non vengono pubblicati il 15, con cronisti e redattori a spasso il giorno prima (ha i suoi pregi non dover lavorare quando tutti gli altri invece lo fanno…), oppure il 16, con le redazioni chiuse proprio il giorno di festa? Nel primo caso non avrei dovuto scrivere questa rubrica: avevo provato un certo sollievo: per una coincidenza sarebbe toccato anche a me – felicemente e fortunatamente in pensione – provare l’ebbrezza, in un certo senso, di un imprevisto giorno di vacanza.
Equivoco rapidissimamente risolto. Eccomi qui, col vantaggio di aver trovato la parola su cui esercitarmi un poco. La vacanza è una mancanza che non ci rattrista, ma anzi ci si presenta come uno spazio e un tempo da riempire con qualcosa di diverso e più attraente del solito. ( Che poi anche la mancanza eccita il desiderio, ma di qualcosa che si sa bene che cosa sia, e che resta così irraggiungibile..). Liberi invece nella vacanza dalle occupazioni quotidiane, che persino quando sono svolte con soddisfazione ogni tanto fa bene interrompere con una cesura, ci si abbandona volentieri a un voltarsi altrove. Figurarsi quando invece i doveri di ogni giorno ci opprimono, ci rendono stanchi e nervosi.
Andare al mare, in montagna, leggere, divertirsi, conoscere nuove persone, mangiar bene, visitare grotte e monumenti. Certo che sì.
Ma la radice di quella parola, che riporta a vacuo, vuoto, con l’eventuale orrore del nulla ( horror vacui ! ) che possono evocare, mi ha fatto pensare a qualcosa di più radicale, nel senso del distacco dalla routine, dello spingersi anche rischiando in altra dimensione.
Mentre arzigogolavo su questi modesti pensieri, e comunque a caccia di qualche argomento, ho letto il bel pezzo che Armando Massarenti, sull’ultima Domenica del Sole 24 ore, ha dedicato a John Coltrane, morto a 40 anni mezzo secolo fa. Improvvisamente ho provato un acuto desiderio di riascoltare la sua musica, cosa che non mi capita da troppo tempo. Prendermi una vacanza dall’andazzo di ogni giorno immergendomi solitariamente in quell’altro universo realizzato da Coltrane e dal percussionista Rashied Ali in alcune delle musiche che mi piacciono e mi coinvolgono di più in assoluto, i quattro pianeti sonori ( Marte, Venere, Giove e Saturno) dell’album Interstellar Space. Brani registrati dal sassofonista nero nel febbraio1967, pochi mesi prima della sua scomparsa, avvenuta in luglio. E a una settimana di distanza da un’altra magistrale registrazione insieme alla moglie Alice al piano, Jimmy Garrison al contrabbasso e lo stesso Raschied Ali alle percussioni, pubblicata col titolo Stellar Regions. Entrambi questi dischi furono prodotti dalla Impulse! dopo la morte di Coltrane, che pur soffrendo e essendo consapevole che la malattia lo stava consumando – o forse proprio per questo – visse gli ultimi mesi con una straordinaria capacità di comporre e di suonare.
Mi sono riconosciuto in quel che ha scritto Massarenti: la musica di Coltrane rappresenta “qualcosa di profondamente umano, forse l’essenza stessa della natura umana”. Inoltre, in una ricerca di senso che negli ultimi anni si era rivolta anche alla dimensione religiosa, e che esprimeva la tensione a un linguaggio nuovo e universale, Coltrane sapeva esprimere il più toccante intimismo individuale e la più sfrenata libertà nella improvvisazione free collettiva ( come nell’altro famoso album Ascension). Lirismo assoluto e “demoniaca complessità”, secondo le parole di un critico contemporaneo.
Da questa escursione interstellare si torna al nostro mondo desiderando ancora di più di cambiarlo, radicalmente e umanamente.