Pubblicato sul manifesto il 22 agosto 2017 –
Ho rivisto alla tv il film Incontri ravvicinati del terzo tipo. Non ricordavo bene diversi passaggi del racconto di Spielberg, e nemmeno l’atmosfera carica di ansia e inquietudine in tutta la prima parte, con le “apparizioni” delle luci aliene. Alcune scene ricordano certe pellicole “horror”: chi o che cosa di orrendo e temibile si nasconde dietro la porta o la finestra incorniciate dai sinistri bagliori, mentre giocattoli a pile e elettrodomestici si animano di vita propria?
Eppure alla paura si mescola subito un sentimento di attrazione, di fascinazione, che coinvolge non solo il bambino presto rapito dagli alieni: la madre si dispera, ma per poco. Sembra prevalere l’idea che le entità straniere che si avvicinano agli umani non ci faranno troppo male. Forse non ce ne faranno affatto.
Il titolo del film allude a una classificazione degli avvistamenti di Ufo (oggetti volanti non identificati) coniata negli anni ’70 da Joseph Allen Heynek, astrofisico e fondatore del più importante centro di ricerca ufologica Usa (notizia copiincollata dal sito Focus). Nell’incontro del primo tipo si verifica la visione di un Ufo posato a terra, a distanza relativamente ravvicinata. In quello di secondo tipo l’Ufo, oltre a essersi posato a terra, deve avere lasciato tracce della sua presenza. Nell’incontro del terzo tipo con l’Ufo deve essere avvistata anche un’entità animata.
Nel film avviene ben di più. Gli alieni non solo si manifestano, ma rilasciano numerosi terrestri “rapiti” in passato, e accolgono il protagonista, spinto da un indomabile desiderio di avere a che fare con gli esseri dello spazio e con la loro ignota civiltà.
Non ho potuto fare a meno di vivere il vecchio spettacolo (1977, data fatidica, con lo scienziato francese interpretato da Truffaut, che comunica con gli alieni grazie a una frase musicale) come una attuale metafora dell’incontro-scontro che viviamo con chi vuole salvarsi, sopravvivere, e persino vivere meglio raggiungendo l’Europa, e con chi invece ci aggredisce giudicando il “nostro mondo”, l’Occidente, come la causa prima e criminale del malessere di moltissimi “altri” abitanti del pianeta.
Bisognerebbe inventarsi le procedure di un nuovo tipo di incontri ravvicinati. Procedure, prima di tutto mentali, in cui liberarsi preliminarmente, nella misura del possibile, degli elementi irrazionali di fronte all’ignoto: le pulsioni della paura o dell’attrazione. Sostituendole con l’apertura e la curiosità, in vista di un possibile scambio. Con la ricerca delle cause e delle motivazioni – ne ha parlato qui Luciana Castellina – che spingono spesso appartenenti a luoghi e culture simili, a compiere gesti tanto diversi, anzi del tutto opposti, come raggiungerci per chiedere ospitalità e aiuto, oppure per uccidere indiscriminatamente.
In questo avvicinamento poi andrebbe tentata un’altra, poco frequentata, operazione: guardare anche a se stessi come fossimo “altri”, alieni. E cercare non solo che cosa c’è al fondo del nostro “foro interiore”, ma anche che cosa ci lega alla storia che abbiamo alle spalle. Dove e come siano nati i principi di libertà europei di cui andiamo giustamente fieri, e quanto siano imparentati con le violenze e sopraffazioni di cui siamo più o meno corresponsabili, quanto siano minati da contraddizioni interne, quanto siano essi stessi frutto di secoli di migrazioni, fisiche e mentali. Ciò non elimina il terrore, e non cancella la difficoltà enorme di rispondere alla domanda di chi cerca rifugio. Ma credo che senza questo non si vincerà nè la prima, nè la seconda sfida.
(Qualche suggestione deriva anche dalla lettura di due testi di Paul Ricoeur: Sé come un altro, 2011, e L’Europa e la sua memoria, 2017. Chissà se il suo “allievo” Macron seguirà questo tipo di ispirazioni. Per ora non sembrerebbe…).