Pubblicato su Alfabeta2 il 26 maggio 2017 –
“Raccontare una storia tristissima. So che si può ma non so come e sono venticinque anni che ci penso”. Inizia così Troppo sale Un addio con ricette” di Stefania Giannotti, rendiconto di una terribile sottrazione, quella del figlio, ragazzo diciassettenne che “faceva domande alla madre per diventare grande”.
Ma grande non lo è diventato.
Il libro scava nella presenza e nell’assenza, nella fisicità e nel vuoto attraverso una storia segnata dal lutto e tuttavia immersa nella materialità delle cose. Non di bizzarria si tratta giacché, al fondo, quando si scrive, sempre di vita si sta parlando. “Perdo te e mi resta soltanto il mondo. Perdo te, amore vivo compiuto reale finito e non posso averne un altro, solo l’infinito mi resta….Hanno strappato dal mio cuore l’adolescente e hanno piantato al suo posto l’adolescenza”.
Il filo di una esistenza breve, ardente, tagliato di netto. Da chi? Non saprai mai se da un dio troppo distante, dalla fatalità, dal mare. Certo, la tragedia personale ti si precipita addosso. Può cambiarti; farti perdere il gusto di vivere. Oppure spingerti – magari contemporaneamente – ad andare avanti: “E così da quando te ne sei andato ragazzo mio, mi è difficile distinguere, in questo procedere, tra vita e morte. Hai visto? L’ho chiamato procedere perché faccio fatica a dire vivere, ma lo è. E non mi è più facile dire morire”.
L’autrice, una bella signora, dotata della qualità di saper ascoltare con attenzione le voci delle altre, degli altri, da quel 25 agosto del 1990 continua a interrogarsi su un sentimento – l’amore – che non si da mai in assenza di rischi. Quei rischi sono imprevedibili. Perciò ignoriamo i giorni che mancano o, al contrario, quelli che restano al momento della catastrofe. Impossibile intuire l’ultima volta per quel bacio leggero, per la carezza distratta lanciata nell’aria.
In Troppo sale riconosciamo l’intrusione di un avvenimento assolutamente estraneo alle circostanze della vita e privo di qualsiasi relazione con esse: d’altronde, la morte è impossibile da addomesticare in modo da renderla confortevole.
Eppure succede e questa è la straordinarietà della situazione, che “la natura morta o vita ferma” si animi quando la realtà riprende forza. Anzi, ruba alla nuda precarietà chi – una madre – supponeva di possedere ormai soltanto lacrime. “Non ho inveito contro di te e neppure contro un dio che non conoscevo, e ora un po’ meglio. Non ho trovato il tempo di giudicarlo. Il pianto non è diventato lamento”.
Non è diventato lamento il pianto grazie a “mille stratagemmi”, fondanti e centrali: un luogo come il CiCip&CiCiap, circolo politico dove le donne intessevano relazioni; la Libreria delle donne di Milano che per Stefania Giannotti ha rappresentato l’incontro con una libertà non solo individuale bensì “valore imprescindibile del femminismo”. Vedete bene quanto sia incommensurabilmente importante quel “campo relazionale”, l’intreccio di legami e rapporti e voci che impedisce di soccombere.
Ma se tutto questo ha funzionato e funziona “è anche per via della cucina alle sue spalle”.
Perché sì, il nutrimento si rivela capace di riparare la morte “per procedere nella vita quando si fa troppo salata”. La cucina garantisce accoglienza; soddisfa bisogni rinviando all’orizzonte del bene comune. Non sempre, evidentemente. Non dove il cibo è merce, eccesso di dolce, salato, amaro, disinteresse per la preparazione, trappola per allocchi in vena dispendiosa.
Il piccolo gruppo femminile nel quale si muove Stefania “si alterna o collabora ai fornelli” di un universo insieme privato e pubblico (la Libreria delle donne, appunto). Un universo nel quale la cura del cibo e la produzione d’intuizioni politiche procedono appaiate. Lì ci si mette in connessione con storie, memorie, culture per aiutare la convivialità. La cucina, oltre a essere un piacere, riesce a essere una risposta sommessa alle preoccupazioni della crisi economica, alle difficoltà sociali.
Nessuno chef che cammini sottobraccio ai media ma cinque donne che hanno preso il nome di Estia dalla dea del focolare, risoluta nell’abbandonare la tavola dell’Olimpo per scendere tra gli uomini.
Un gruppo depositario di competenze antiche, tramandate, ricreate come dimostra la “Pausa cucina” inserita nel testo.
Una pausa vera che placa la tensione grazie alle ricette ispirate dalle nonne, accumulate in ambito famigliare, raccolte inseguendo l’infinita immaginazione delle regioni italiane, oppure riadattando il ricettario di Apicio (primo secolo d.C.) e quello rinascimentale.
Alla Libreria delle donne si replica e si innova. Servono gli utensili, le materie prime, gli ingredienti scelti e, in Troppo sale, la scrittura impone il sapore. Sono frasi concatenate, acciuffate per riprendere slancio e poi immergersi in un ritmo improvvisato. Spesso, l’autrice usa la prima persona singolare: “Aggiungo, unisco, tagliuzzo, impasto” invece della seconda persona plurale che impone: “Dosate, diluite, sbattete”.
Linguaggio prezioso di un libro dolente che pure mostra la possibilità di tenere in vita un ragazzo scomparso. Attraverso il nutrimento delle parole.
Stefania Giannotti
Troppo sale Un addio con ricette
Feltrinelli 2017
pp. 182 euro 16