Pubblicato sul manifesto il 16 maggio 2017 –
Un fotografo inglese, Babycakes Romero, ha scattato una serie di immagini in cui persone vicine, a casa, al bar, sul bus, consultano i loro smartphone ignorandosi completamente. Il massimo della connessione comunicativa corrisponde al più rigoroso silenzio. E ha intitolato questa sua opera «Death of a Conversation», La morte della conversazione.
Mi è venuto in mente che della morte della conversazione, e della progressiva scomparsa di coloro che sapevano conversare aveva già parlato alla vigilia del ’68 Guy Debord, nel suo fondamentale La società dello spettacolo.
La telefonia mobile era ancora di là da venire, ma la capacità di comunicare e comunicasi realmente qualcosa sembrava già correre gravi rischi. E del resto una quarantina di anni prima Bertolt Brecht, al diffondersi della radio, aveva osservato come «ora che tutti possono parlare con tutti, è difficile trovare qualcuno che abbia qualcosa da dire» (citato a memoria: la frase letterale è questa: “D’improvviso si aveva la possibilità di dire tutto a tutti, ma, a pensarci bene, non si aveva nulla da dire”.).
La parola – dal latino cum – versare – significa trovarsi insieme, quindi la possibilità di parlarsi nasce strettamente connessa alla vicinanza dei corpi. Il che naturalmente non vuol dire che non si possa comunicare a distanza. Basta sapere che l’interposizione di mediazioni tecnologiche rischia di diminuire o alterare la qualità della comunicazione, per quanto oggi un telefonino ci possa consentire di aggiungere al suono della voce anche le immagini in diretta dei nostri volti, corpi, ambienti che ci circondano.
Ma – tornando solo per un attimo al Debord degli ultimi anni ’60 e al Brecht dei primi ’30 – anche i nostri corpi in presenza possono essere schermati e distorti da sovrastrutture culturali, stereotipi mentali, e nevrosi di vario tipo che rendono le nostre conversazioni poco decifrabili quando non giochi al massacro che ci lasciano senza scampo.
Il punto, mi sembra, è che la conversazione è un’arte, e come tutte le arti richiede per produrre risultati una certa disciplina, uno studio, e il riconoscimento dei desideri profondi che la spingono e la animano.
Oggi questo apprendistato non può fare a meno di comprendere il migliore utilizzo dei nuovi e sempre più raffinati strumenti del comunicare. Ma guai a pensare di poter fare a meno del guardarsi, ascoltarsi dal vivo e anche toccarsi (un carissimo amico, accanito conversatore nelle stanze della vecchia Unità, accompagnava le sue affermazioni con insistenti rintocchi delle sue dita sulla mia spalla. È quel gesto ne chiariva non poco il senso e anche la consistenza di un affetto reciproco…), così come dell’interrogarsi sui misteri mentali che producono certe affermazioni. (Perchè la Serracchiani dice la sua sciocchezza sugli stupri dei richiedenti asilo? Che cosa spinge Renzi e la Boschi a promettere che torneranno a casa se perderanno il referendum , quando – una volta perso – non sono nemmeno in grado di spiegarsi e spiegare la sconfitta?).
Tutto ciò – infine – per segnalare una iniziativa politico-culturale che mi sembra andare nella direzione giusta per riconquistare una qualche capacità di conversare.
Parlo del Cantiere aperto dalla redazione di Alfabeta2, che ha costituito una associazione, avviato un confronto in rete su apposita piattaforma, ma che invita contestualmente a un parlarsi in presenza.
Cosa che avverrà il prossimo giovedì 25 maggio alle 18, a Roma, presso lo Spazio culturale Moby Dick (via Edgardo Ferrati).Il tema è: Verità alternative. Filosofia media politica scienza. Partecipano Mario De Caro, Ida Dominijanni, Andrea Grignoli, Vincenzo Piscitelli, Fabrizio Tonello.
L’incontro è aperto a tutti, ma gli iscritti all’Associazione avranno in regalo una copia del volume Ricreazioni. L’arte tra i frammenti del tempo, a cura di Achille Bonito Oliva.