Pubblicato nell’inserto del Manifesto “il corpo del delitto”, 26 novembre 2016
“Prima ci si lamentava della scarsa disponibilità delle donne, poi si diffuse il timore che fosse eccessiva, e la loro aspirazione al piacere illimitata (…) Comunque vada, le donne sono causa di ansia e sgomento per l’uomo nevrotico, e se non era nevrotico appunto per questo lo diventa: o perché egli è convinto che esse lo minaccino con la loro oramai manifesta superiorità e indipendenza sessuale, o perché lo contaminano con la loro inferiorità intellettuale, o perché proclamano a gran voce la totale autonomia da lui, oppure al contrario lo invischiano, lo risucchiano, lo debilitano, lo immobilizzano in una rete di seduzione. A un nemico così subdolo non si può che dichiarare una guerra preventiva, prima che riesca a rovesciare l’inferiorità sociale in supremazia biologica, grazie al suo inesauribile potenziale erotico”.
E’ una delle possibili fenomenologie della violenza maschile, secondo Edoardo Albinati, in un passo del suo romanzo La scuola cattolica. Che il premio Strega per la letteratura italiana sia stato attribuito per il secondo anno consecutivo a un libro scritto da un uomo, al cui centro – sia pure con storie e stili diversissimi – stanno dinamiche di disagio e violenza maschile significa qualcosa? L’anno scorso era toccato alla Ferocia di Nicola Lagioia.
Non esprimo giudizi sul valore artistico di questi testi. Ma credo rappresentino un segnale. Come tanti interventi maschili sui giornali e in tv, sui social. Così come il fatto che in diverse città italiane per iniziativa di uomini si siano svolte negli ultimi tempi manifestazioni pubbliche contro la violenza ( Primadellaviolenza ). Si sta verificando un mutamento, un salto di qualità nella coscienza di noi maschi, che a partire dal rifiuto dei comportamenti violenti ci spinge a una trasformazione più profonda, alla ricerca di altri modi di vivere il nostro corpo, i nostri sentimenti, la nostra capacità di tessere relazioni con altre e altri?
Perché siamo noi a esercitare queste violenze, e i femminicidi – un termine che si è diffuso molto velocemente, sintomo della sempre più alta insopportabilità sociale di una ferocia “normalmente” presente – sono la manifestazione più estrema di una cultura basata sul possesso, ancora molto diffusa.
Non si parte però da zero. Dieci anni fa con alcuni amici della rete di maschile plurale rendevamo pubblico un testo che diceva appunto questa semplice verità rimossa: la violenza maschile ci riguarda, prendiamo la parola come uomini. Aveva raccolto migliaia di adesioni maschili, anche dal mondo della politica, della cultura, del sindacato.
E’ poi proseguito un cammino difficile, ma credo non inutile. Soprattutto si sono moltiplicate relazioni individuali e di gruppo in cui gli uomini mettono in gioco e in discussione la propria maschilità. Così come sono proseguiti, non senza conflitti anche acuti, gli incontri e gli scambi con le donne del femminismo. Una rete di esperienze e di pratiche che cerca di mettere a frutto l’intuizione – regalataci dalla politica delle donne – che tra personale e politico il nesso è fondamentale.
Anche sul terreno arduo della violenza. A Torino – ma è solo uno dei numerosi possibili esempi – i maschi del Cerchio degli uomini e le donne del centro Donne e futuro sono impegnati/e insieme per costruire percorsi condivisi nell’affrontare la violenza maschile. Lo stesso avviene nella rete dei CAM (Centri per l’ascolto di uomini maltrattanti).
Ci sono anche uomini che si sono emancipati dalla condizione di clienti e si sono impegnati contro la tratta delle donne che dall’Africa vengono obbligate a prostituirsi sulle nostre strade spesso a rischio della vita.
Cominciano quindi a diffondersi anche in Italia servizi e iniziative rivolte specificamente agli uomini che agiscono violenza (ne parla con voci femminili e maschili il libro Il lato oscuro degli uomini, Ediesse, a cura dell’Associazione Le Nove). Gli scopi sono diversi: prevenire la spirale violenta, dando ascolto ai maschi che volontariamente si sottopongono a percorsi per liberarsi dai comportamenti aggressivi. Ridurre le recidive per gli uomini già immessi nel circuito giudiziario.
E’ un tema molto delicato: credo che l’iniziativa maschile in questo campo non possa mai prescindere dal confronto e lo scambio con le donne che da decenni lavorano nei centri antiviolenza. Mentre le iniziative del governo e delle istituzioni locali dovrebbero gestire con grande cura i finanziamenti previsti dalle recenti norme nazionali, che comunque sono largamente insufficienti e spesso restano bloccati per difetti burocratici nelle casse delle Regioni e dei Comuni.
La violenza va riconosciuta soprattutto prima che si manifesti.
Maschile plurale insieme alla rete dei centri antiviolenza DIRE, ha contribuito l’anno scorso a un progetto rivolto alle scuole superiori, sostenuto dal Dipartimento Pari Opportunità: grazie a cinque storie narrate in brevi audiovisivi (Five men) in cui i protagonisti giungono al confine della violenza, ma riescono a evitarla aiutati dallo scambio con altri uomini, è stata promossa un discussione in molte assemblee e classi scolastiche in tutta Italia. Molte altre occasioni di confronto sugli stereotipi di genere si motiplicano tra studenti, insegnati, e famiglie, per iniziativa di un associazionismo culturale vivace.
La scommessa più importante per me è di natura simbolica, e riguarda la mente e il desiderio di noi maschi: la nuova autonomia e libertà delle donne può essere per noi non una minaccia nevrotizzante, come scrive Albinati, ma l’occasione di un cambiamento che migliori le nostre vite? Che ci metta di più in sintonia con quella parte dei nostri sentimenti e dei nostri corpi che le ipoteche patriarcali e maschiliste in fondo comprimono da millenni?
Se la risposta a questo quesito radicale fosse positiva, credo che ne verrebbero buoni effetti non solo per le relazioni di coppia, per quelle tra padri e figli, e tra individui, ma per la stessa dimensione del vivere in comune. Per un assetto sociale e politico sempre più informato dalla cura, capace di riconoscere come negativa ogni forma di violenza, di trasformarla nei conflitti che sono anch’essi necessari, ma riuscendo a evitarne l’esito mortifero, la negazione assoluta dell’altro da noi.