Pubblicato sul manifesto il 6 settembre 2016 –
Uno psichiatra che insegna e esercita negli Usa, Irvin D. Yalom, è diventato anche un romanziere famoso inventando storie sulla vita di filosofi molto importanti, come Nietzsche e Schopenhauer. Sto finendo di leggere uno dei suoi romanzi più recenti ( giunto in Italia alla decima edizione, Neri Pozza), Il problema Spinoza, basato su una azzardata vicenda parallela tra la vita e il pensiero dell’ebreo scomunicato Spinoza, e quella del nazista ferocemente antisemita Alfred Rosenberg.
La circostanza mi suggerisce una parola che è un nome proprio, ma anche un vocabolo con un suo significato. È il nome di Spinoza, Benedetto, nella nostra lingua. Baruch per gli ebrei ( con il simile Barak per gli arabi ), Bento in portoghese, Benedictus in latino. Nel romanzo, e anche – credo – nella vita reale del filosofo, Spinoza usò queste diverse versioni del suo nome ( tranne quella in arabo ). Oltre che l’anonimato con cui furono pubblicate alcune sue opere, come il Trattato teologico-politico, che scandalizzò tutte le chiese e i poteri del tempo. Giacchè perorava un’idea di libertà basata sulla ragione e non su dogmi e pregiudizi o sulla forza del potere, fin dal sottotitolo ( .. la libertà di filosofare non soltanto può essere concessa salve restando la pietà e la pace dello Stato, ma piuttosto non può essere negata se non distruggendo insieme la pietà e la pace dello Stato).
I mutamenti del nome per Spinoza, ebreo portoghese fuggiasco in Olanda dalla persecuzione cattolica, e poi bandito anche dalla sua Sinagoga, parlano dell’impossibilità per un uomo libero di riconoscersi completamente in un comunità che si autodefinisca con norme rigide, che escludono altre culture e altre idee, altre persone.
D’altra parte in questo caso il significato del nome fa singolarmente risaltare l’ottusità di queste culture: infatti quel nome, in tutte le lingue, e fin da tempi remoti, significa la stessa cosa, la condizione di chi è “ricco di benedizioni divine”. Una condizione di favore religioso che, alla lettera, evoca per noi anche la facoltà di usare bene il dire, le parole che si pensano e si pronunciano.
Questo farebbe pensare alla possibilità di parlarsi, effettivamente, anche da comunità e culture diverse. Purtroppo se nel ‘600, nei decenni precedenti e ancora all’epoca di Spinoza, le guerre di religione avevano provocato stragi immani e persecuzioni nel cuore dell’Europa, ancora oggi questo dialogo è difficile, a volte impossibile, e spesso genera violenze inaudite.
Pensieri ritrovati domenica nel lungo commento di Luca Ricolfi sul Sole24ore ( La globalizzazione ai tempi del “burquini”) a proposito delle polemiche sugli indumenti da spiaggia di (alcune) donne musulmane, e sulla pretesa occidentale di normare e vietare la cosa, in nome della libertà femminile e dei “nostri valori”. Ricolfi consiglia giustamente di riflettere sulla propria storia: non c’è bisogno di risalire ai tempi di Spinoza o di San Paolo per trovare usi e costumi non troppo dissimili da quelli che oggi condanniamo con tanta sicurezza. La contraddizione delle certezze “illuministe”, divise tra tolleranza e relativismo da un lato, e pretese normative universali dall’ altro, forse si possono affrontare meglio se si pensa al fatto che l’idea di libertà ai nostri giorni è profondamente cambiata rispetto all’ epoca dei “lumi”, alla cui nascita certo contribuì il nostro Baruch. Principalmente perchè è venuta al mondo una libertà femminile che prima era sconosciuta. Una libertà benedetta, mi verrebbe da dire. Ha il favore di certi dei, o più probabilmente dee. E noi uomini dobbiamo ancora imparare a dirla bene. Non solo se siamo musulmani praticanti.