Pubblicato sul manifesto il 30 agosto 2016 –
In quella terribile notte anch’io, come tanti, ho avvertito le scosse. Mi sono svegliato e tutto vibrava, ballava. Sia pure, come dire, un po’ in sordina. Dalla libreria di fronte al mio letto sono caduti alcuni oggetti. Un aeroplanino di latta, regalo di mia figlia, una vecchia sveglia svizzera con carillon, che era dei miei genitori, forse anche di una nonna. Per fortuna non si è rotta. Ma ecco che dicendo questo un po’ mi vergogno, perché non posso non pensare a tutte le persone che hanno perduto la vita, o quella dei propri cari. E tutto il resto che è andato distrutto.
Facendo un piccolo giro in rete ho scoperto un sito che si chiama Una parola al giorno dove trovo l’etimo del termine scossa, dal latino excutere, dove ex rafforza il significato di quatere, agitare, scrollare. Ma ci trovo anche qualcosa di più interessante. Una osservazione sul fatto che “la parola è un’entità intellettuale, ma i concetti pronunciati si sentono con tutto il corpo, e restare bene ancorati a quella sensazione che la parola suscita non è solo mestiere da attori: è necessario per chiunque trovi un valore nella buona espressione e nel parlare bene”.
Segue questo testo: È come se un gigante, afferrati i lembi di una tovaglia apparecchiata su cui stavamo come fragile vasellame, avesse agitato le braccia, per sparecchiare nel modo più sbrigativo. A essere scossi siamo stati tutti e tutto. La scossa ci ha attraversato, come si trattasse di elettricità. Rimane il dubbio che – oltre a scaricarsi sugli edifici – spesso si sia scaricata, invisibile e silenziosa, anche all’interno di molti di noi.
Mi sono rispecchiato in queste parole. Anche se è stato solo un po’ di spavento, rafforzato dagli echi delle scosse successive, qualcosa ha agito dentro di me modificando il mio umore. Facendomi pensare al lato negativo, oscuro, imprevedibile e temibile dei tanti terremoti che stiamo vivendo.
Rischio di essere banale, lo so, ma credo che l’immagine non sia infondata: negli stessi giorni in cui seguivamo il disastro e il lutto di Amatrice e degli altri paesi colpiti, con la coda dell’occhio sbirciavamo i bombardamenti in Siria e in Libia, o quella incredibile foto dei poliziotti francesi che obbligano una signora sulla spiaggia a togliersi uno dei suoi vestiti (e che sollievo il fatto che un tribunale francese abbia salvato l’onore di ciò che si può ancora intendere per cultura laica di uno stato).
Il paesaggio che ci circonda conosce molte fratture.
Una associazione che si chiama Scosse interviene nelle scuole per favorire relazioni migliori tra i giovani e la loro identità sessuale. Certi “delitti passionali” di una volta ora sono giustamente nominati come intollerabili femminicidi.
Un modo per reagire a ciò che ci colpisce e suscita paura, rabbia e aggressività: fermarsi e analizzare che cosa la scossa produce dentro di noi. Il testo che ho citato sul sito Una parola al giorno è stato fornito da una associazione nata dopo il sisma in Emilia, per capire “come alcune parole si sono trasformate dopo il terremoto e come si possono rinnovare”. Qualcosa di simile fanno le donne che all’Aquila hanno dato vita al gruppo Terre-mutate .
Esistono ormai molte “parole terremotate” nel nostro linguaggio, non solo a causa degli eventi sismici. Che cosa vorrà mai dire, per esempio, “emergenza”, in un paese che abbiamo capito essere a rischio come il Giappone e la California? Oppure in un conflitto – detto “guerra al terrorismo” – che dura da un quindicennio?
Elaborare il lutto, cambiare il vocabolario.