Pubblicato sul manifesto il 5 aprile 2016 –
Quanto durerà la paura di un attentato che coinvolga noi o persone a cui vogliamo bene? Se passerà qualche settimana in più senza altre stragi come quelle in Belgio ci dimenticheremo di trasalire per un attimo salendo in metropolitana. Di guardare con un improvviso interrogativo il volto scuro e triste di uno straniero nell’autobus affollato.
C’è un miscuglio infernale tra la violenza che subiamo e quella che esercitiamo contro chi scappa dallo stesso terrorismo che ci aggredisce, dalla guerra (magari ne siamo complici), dalla fame, o semplicemente da un contesto sociale che non si sopporta più. Non c’è la globalizzazione? La megamacchina mediatica non offre continuamente immagini di altri paradisi possibili?
Sulla Repubblica le parole di un pachistano, Rizwan Mamoud: “… mi ucciderò se l’Europa non mi aiuta. Tenteranno di rimandarci in Turchia? Mi butterò in mare, e morirò a 22 anni. Raggiungerò mio fratello: lui ne aveva 16, me l’hanno ucciso davanti agli occhi durante il viaggio”. Sono stati dei banditi iraniani. Ma la vita nel Punjab “è impossibile”. E i genitori dei due ragazzi si erano venduti la casa per mandarli in Europa.
Qui però si discute degli attentati non solo alle nostre vite, ma al nostro sistema di vita. Insopportabile vietare le minigonne in un ufficio pubblico, o aprire piscine riservate alle donne musulmane. D’Alema saggiamente propone l’8 per mille anche per chi vuole costruire una moschea. Ma Salvini grida: nessuna moschea finchè c’è la Lega a Milano!…
Un libro a cura di un amico, Marco Deriu, e di una associazione che si chiama Parma per gli altri si intitola Sguardi stranieri sulla “nostra” città, edito da Battei, e raccoglie i racconti di una trentina di donne e uomini immigrati dall’Est europeo, dall’Africa e dall’Asia, dall’America latina. Colpiscono le differenze grandi tra una testimonianza e l’altra. Svetlana di fronte allo “snobismo” dei giovani di Parma rimpiange l’ospitalità aperta e diffusa nella sua Ucraina, lasciata da molti anni; Hamed osserva la tristezza e la solitudine dei vecchi italiani, così diversa dal calore familiare e sociale da cui sono circondati in Egitto; Halima rimpiange il Marocco e la scuola che lì frequentava con profitto: ma ha dovuto abbandonare tutto per seguire un marito imposto dalla famiglia. D’altra parte la moldava Maria dice che la “nonna” di cui si è presa cura come badante “è stata come una madre” e quando fa visita ai familiari, ora che lei non c’è più, “ e come se tornassi a casa mia”.
Il filo di queste storie di persone, spezzato e ripreso lungo molti brevi capitoli scritti da autori e autrici diverse, mette in scena un gioco di specchi tra la cultura e l’esperienza di chi intervista e scrive – con riferimenti e citazioni da Leonard Cohen a Paul Valery, da Zizek a Heidegger – e quelle di chi parla di sé, venendo da tutt’altri mondi.
E’ una procedura che forse ci mette un po’ in guardia dal rischio di imprigionare gli individui negli stereotipi culturali, e nello stesso tempo parla delle differenze anche molto profonde delle culture. In termini sociologici, direi che suggerisce l’interculturalismo e non il multiculturalismo.
Chiude un commento – di Francesca Avanzini – con due affermazioni su cui riflettere. Per cambiare le cose fare leva sulla capacità mediatrice delle donne, “meno inclini alla violenza della controparte maschile”. Sapere che “l’altro è irriducibile alle nostre istanze”, ma qui “sta il bello”. Perché riconoscendo la differenza si trovano poi i luoghi mentali e sentimentali comuni, nei quali “loro siamo noi”.