Domenica mattina era una bellissima giornata e ho fatto una lunga passeggiata a Monterotondo, che dista pochi chilometri da Mentana, dove ora abito. Nel centro otto-novecentesco ci sono dei bei giardini pubblici, con molti alberi, panchine accoglienti, bar, e alcune graziose villette liberty che si affacciano sul viale e l’area verde. C’erano molte persone anziane, bambini che giocavano, mamme e papà, giovani immigrati. Da qui una salita larga e lunga in pietra e alberata ai lati porta al nucleo più antico della cittadina, che si presenta con la mole cinquecentesca del “palazzo-fortezza” Orsini, sul colmo della collina.
Lungo questo percorso mi hanno colpito una quantità di lapidi che ricordano i caduti di tante diverse battaglie. Nei giardini pubblici una stele ricorda “i valorosi” che “non contando i nemici” caddero volendo “un’Italia libera dallo straniero e dal governo del prete”. Erano i garibaldini che nel 1867 volevano liberare la Roma di Pio IX, difeso dai francesi: vittoriosi a Monterotondo ma al prezzo di gravi perdite, che causarono la successiva sconfitta a Mentana.
Accanto a questo monumento un altro marmo ricorda i militari italiani che caddero nelle giornate immediatamente successive all’8 settembre del ’43, quando centinaia di paracadutisti tedeschi attaccarono, con molti morti anche tra le loro fila, e scarso risultato strategico.
In cima alla salita che porta al cuore urbano antico una stele più alta è fitta dei nomi dei soldati morti nella Grande Guerra, e anche – in tutto cinque nomi – nella guerra Italo Turca, come venne definita l’impresa – densa di orrende stragi da un parte e dell’altra – che portò alla nascita, nel 1912, della colonia italiana denominata Libia. Ai piedi di questa stele è stata più recentemente posta una lapide in memoria di tutti i caduti “nelle missioni di pace all’estero”. Un poco oltre, in un altro bel giardino assolato, sui quattro lati di un blocco di pietra sono incisi i nomi dei “caduti civili” della seconda guerra mondiale, un monumento realizzaato nel XXV anniversario della Liberazione di Monterotondo.
E un ultimo richiamo alle atrocità più recenti mi è venuto dal nome a cui è intitolata la piazza dominata dal palazzo-fortezza rinascimentale: Angelo Frammartino, “giovane monterotondese caduto a Gerusalemme per la pace, medaglia d’oro al merito civile”. Angelo era un pacifista, nell’agosto del 2006, poco più che trentenne, era in Israele a fianco dei Palestinesi, volontario in una Ong che si prendeva cura soprattutto dei bambini. Ma mentre passeggiava nei pressi della Porta di Erode a Gerusalemme era stato accoltellato da un palestinese di 24 anni, un estremista che intendeva eliminare un ebreo.
Non so bene perché la mia attenzione è stata tanto attirata da questi nomi scritti sulla pietra, alcuni più nitidi, altri quasi cancellati dal tempo. Tutti maschi, tranne le donne tra i civili uccisi nell’ultima guerra mondiale.
Nel tepore primaverile, tra i vecchi che leggevano il giornale (tra i quali ero intenzionato a mischiarmi scegliendo una panchina moderatamente assolata) e bambini gridanti, quelle tracce erano presenze discrete ma molto intense. Non ho potuto ignorarle. Forse ho provato qualcosa che ci è negata nella grande città. Dove monumenti circondati dal traffico catturano uno sguardo per la bellezza o l’imponenza, ma non ci parlano delle loro storie. Ho sperimentato un gioco della memoria non cruento come le immagini che subiamo a ogni telegiornale. Una tranquilla malinconia per la guerra, che ci perseguita da sempre e non smette mai.