di Monica Luongo, pubblicato anche su www.olimpiabineschi.it
Quando nel 1976 Helmut Newton pubblicò il suo primo libro di fotografie White Women, furono in molte a lanciare anatemi contro l’artista e chi gli avrebbe poi assegnato il prestigioso Kodak Award. Perché Newton aveva scelto come soggetto il nudo femminile e, pur mettendo al servizio delle più prestigiose case di moda del mondo la sua arte, era il corpo nudo a dominare l’obiettivo, l’immagine, lo spettatore.
In quell’album compariva – tra le altre – una modella carponi su un letto, vestita di una sella di cuoio di Hermès, lo sguardo traverso all’obiettivo. In altre immagini modelle nude venivano ritratte accanto ad altre vestite in strade deserte della notte parigina. Nessuna femminista dell’epoca poteva essere contenta: erano gli anni della lotta dura e pura alle donne oggetto, gli anni che ci hanno cambiato nelle donne che siamo diventate (almeno per due-tre generazioni).
Pure quell’approccio cambiò il modo di vedere le immagini dell’alta moda e il simbolismo femminile che la rappresentava, nel bene e nel male.
Dopo soli due anni, 1978, qualcosa muta. Nella collezione Sleepless Nights, il bianco e nero domina su un gioco ambigue e pericoloso. Donne e uomini, nudi o seminudi, assumono pose erotiche di fronte alla telecamera: occorre guardare molto bene e schiacciare il naso vicino alla foto per capire che uno dei sue protagonisti è un manichino. In altre foto le e i modelli posano come se fossero parte di una scena del crimine: la mia preferita mostra una coppia vestita di pochi dettagli, avvinghiata all’aperto, i corpi sono separati dalla ghiaia grazie all’impermeabile dell’uomo. Due giganteschi simbolici dettagli costituiscono l’essenza di quello scatto: le scarpe rosse tacco 12 della donna e il muso di una Citroen DS, un mito delle quattro ruote, parcheggiata a meno di un metro dai corpi.
Guardo a più di trent’anni di distanza tutte queste foto di Helmut Newton – ora in mostra in una bellissima antologica alla Galleria Tre Oci di Venezia – e le ritrovo bellissime, eterne, a tratti commoventi.
Perché ero troppo giovane per capirle allora, cogliere quel cambiamento artistico che stravolgeva naturalmente anche la fotografia, e anche per comprendere quel gioco sottile e ironico che prendeva in giro la moda, servendosene e dando importanza ai corpi. Ironico, irriverente, Newton non è mai pornografico, volgare. Una immagine a colori dell’album del 1978 – una donna sdraiata sul letto di un prestigioso hotel di Parigi guarda a se stessa in uno specchio senza perdere d’occhio la città – mi ricorda che i selfie non erano ancora arrivati e il photoshop non era stato nventato, che le foto si stampavano, che gli esposimetri potevano decidere il destino felice di un arcobaleno dopo la pioggia o di un essere umano che ferma un carro armato.
Ancora, ricordo guardando la terza e ultima collezione esposta, Big Nudes del 1980-81, quanto fossi innamorata di Lisa Lyon, la modella preferita di Newton. Quasi sempre ritratta nuda con tacchi spillo, braccia incrociate sul davanti e gambe divaricate. In quegli anni di guerre fredde, ripiegamenti sul sé, dinamiche articolate dei femminismi internazionali e lotte civili, pure quella donna non depilata, non tatuata, semplicemente più forte che bella, mi sembrava còlta in tutta la sua potenza da uno sguardo maschile che le rendeva il più umile degli omaggi. Proprio come il self portrait in cui il fotografo si ritrae nello stesso specchio in cui sta posando una modella: accanto a esso, seduta assorta e vegliante come Artemide, la moglie adorata, che apparteneva alla realtà e dunque non necessitava di essere immobilizzata nel tempo del diaframma.
In un momento in cui le foto che tendo a guardare di più sono i reportage dalle terre del dolore e dell’approdo, di bambini morti e spiaggiati, fili spinati, e donne uccise nei boschi, il pomeriggio passato in compagnia delle donne e di Helmut Newton mi ha regalato per un po’ uno sguardo differente del mondo sessuato, o piuttosto un modo differente di guardare a esso.
Helmut Newton, Fotografie, Tre Oci, Venezia, fino al 7 agosto 2016 ( http://www.treoci.org )