Pubblicato sul manifesto il 29 marzo 2016 –
Intelligence! Intelligence! Dopo gli attentati in Belgio ci siamo sentiti ripetere questa parola inglese che identifica le attività, per lo più svolte dai servizi segreti, che dovrebbero consentire alle polizie e agli eserciti di conoscere in anticipo chi sono e che cosa sono intenzionati a fare i nemici, per prevenire i loro atti ostili, individuarli e metterli nella condizione di non nuocere.
Che questa attività dovrebbe coordinarsi a livello internazionale, in Europa e non solo, e qualificarsi sempre di più contro la guerra asimmetrica del terrorismo sembrerebbe un’ovvietà, ma a quanto pare non è così.
Questa desolante constatazione forse dovrebbe indurci a riflettere di più sul significato della parola, che tradotta dall’inglese e dal militarese (dove sta anche per notizia, informazione) significa proprio intelligenza. Termine che deriva dal verbo latino intelligere, forse risultato dell’unione di un avverbio – intus, o intra – e del verbo legere, cioè leggere. Dunque l’intelligenza sarebbe la capacità di leggere dentro, oltre la superficie delle cose, o tra le cose, cogliendone le relazioni non sempre evidenti. E magari, ancor meglio, l’una e l’altra abilità.
In una sintetica “Storia ed evoluzione dell’Intelligence” trovata nel sito del Ministero della Difesa si leggono alcune citazioni dall’ Arte della Guerra di Sun-Tzu, che già nel quarto secolo a. c. riteneva essenziali per la vittoria le informazioni raccolte dalle spie e la capacità di prevedere l’andamento delle battaglie. Non ho trovato però quella che mi sembra l’osservazione essenziale del generale cinese: per vincere è indispensabile conoscere bene il nemico, ma anche conoscere bene se stessi. Se una di queste conoscenze manca l’esito negativo del conflitto è quasi scontato.
Ma come migliorare la conoscenza di sé? Come approfondire l’autocoscienza di un Occidente che oscilla paurosamente tra ritenersi il faro della civiltà assediato dai barbari, o il responsabile di tutte le colpe?
Mi ha colpito l’opinione estrema di Franco Berardi “Bifo” che commentando sul quotidiano on-line di Alfabeta2 l’iniziativa europea di Varoufakis ne ha criticato l’intento “democratico”. Per lui la democrazia, inventata in Grecia più di duemila anni fa, è definitivamente morta e sepolta, bisognerebbe affidarsi a una “piattaforma” capace di collegare le intelligenze degli ingegneri e degli artisti, attori del lavoro cognitivo che sta al cuore delle nostre società capitalistiche da sovvertire.
Che le democrazie non se la passino bene, tanto più con le tendenze securitarie rafforzate dalla minaccia terroristica, è certamente vero. Ma è accettabile tanta – neotecnocratica? – sfiducia sulla possibilità di opinioni e sentimenti più umani tra popolazioni considerate ormai irreversibilmente subalterne?
Ecco il punto: i nessi tra opinioni e sentimenti, per una intelligenza diffusa, non determinata solo da ciò che definiamo “razionale”. Persino il riassunto sul sito della Difesa si chiude dicendo che, dopo l’11 settembre 2001, la fiducia nelle informazioni raccolte con i più sofisticati sistemi tecnologici è venuta meno, perché “non riescono a fornire da sole una percezione sufficiente dei sentimenti e delle intenzioni di popolazioni, gruppi sociali o singoli individui”.
Questo vale per il difficile mestiere delle spie, e a maggior ragione per quello della politica. Che un anziano signore “socialista” che accusa l’establishment finanziario raccolga tanti consensi proprio nel paese delle le torri gemelle abbattute, non dovrebbe consolarci e aprirci un poco la mente?