Pubblicato sul Manifesto 8 marzo 2016
Non c’è molto da festeggiare, e molto per cui lottare, in questo 8 marzo 2016. Questa ai miei occhi la sintesi di un anno complesso e di una scadenza che ritorna politica, dopo anni di allegre feste popolari tra amiche. Un appuntamento che cade in un momento in cui non solo i temi e le questioni aperte dalle donne e dai femminismi sono al centro della politica, per tutte e tutti, ma soprattutto delle femministe risultano fondamentali le chiavi di lettura, le interpretazioni, spesso le più incisive per comprendere un mondo sempre più caotico.
Un’efficacia che va perfino al di là della consapevolezza delle femministe, una consapevolezza necessaria, per dare senso alla forza sedimentata in anni di lavoro e di politica. Dalla piazza di quarant’anni fa, le manifestazioni dell’8 marzo 1976 sono state le più imponenti del femminismo degli anni Settanta. Lì apparvero le streghe tornate a far tremare il patriarcato, oggi le femministe possono rompere gli schemi in cui viene codificato lo scontro sociale in epoca neoliberista.
Ricordiamo tutti e tutte la Sylvesternacht di Colonia, l’allarme del capodanno dei molestatori. La montatura mediatica – come si è accertato mano mano – costruita intorno al preteso attacco deliberato alle donne occidentali da parte di uomini “Nordafricani e arabi”, si è accompagnata alla domanda accusatoria ripetuta da varie parti: dove sono le femministe? Che sarebbero colpevoli di rompere il fronte dell’Occidente, di rinunciare a difendere la propria solidarietà. Mentre è vero il contrario. È solo la cultura politica delle femministe, che permette di decodificare la trasversalità della violenza maschile senza cedere ai buoni sentimenti, alla solidarietà senza giudizio. Non occorre essere accomodanti con gli uomini, mussulmani e non. La critica radicale del patriarcato non ha indulgenze per nessuno, e proprio per questo è uno strumento efficace per spezzare la propaganda della “guerra di civiltà”. È una specie di bisturi politico, che taglia alla radice l’asse “noi e loro”. Per questo è così avversato.
Altrettanto colpevoli sarebbero le femministe italiane, almeno quelle che non si accodano al proibizionismo universale contro la “maternità surrogate”, o meglio Gpa, gravidanza per altri. Non perché si sia cieche verso lo sfruttamento, categoria improvvisamente comparsa nel dibattito politico dopo essere stata cancellata da qualunque altro contesto, di lavoro per esempio. Ma nelle pratiche femministe si impara ad ascoltare, guardare con i propri occhi, prendere atto che le persone coinvolte hanno molto da dire, che non coincide con i giudizi tranchant. Soprattutto le femministe hanno molto da dire sulle famiglie, che spesso sono gabbie terribili, e che se sono belle non hanno molto a che fare con le tradizioni e i ruoli imposti. E lo sfruttamento contro il quale lottare, non può essere confinato alla sfera della riproduzione.
Che non è, non può essere l’unico elemento per cui parlare in nome delle donne. Le donne non coincidono con l’essere madre. La maternità oggi è una scelta, perfino nei mondi che ci ostiniamo a pensare arcaici. L’essere madre non definisce la soggettività di una donna. Sia quando lo è che quando non lo è. Così si scopre che i cambiamenti reali – in effetti oggi le donne nel mondo fanno meno figli di un tempo, e anche per le madri l’arco di tempo in cui effettivamente ci si occupa dei figli è relativamente breve, in vite sempre più lunghe – fanno a fatica a entrare nella mente di ciascuno. Gli ideali si rifanno al passato, e il presente viene percepito come disordine, confusione. Un bel terreno di lotta.
Certo, il 2016 potrebbe essere l’anno in cui Hillary Clinton diventerà finalmente presidente degli Stati Uniti. E una governante di alto livello, anche se conservatrice come Angela Merkel, rischia la sua notevole forza politica per un’impopolare posizione di accoglienza nei confronti dei rifugiati. Il quadro del potere, e soprattutto del potere simbolico, è mosso, articolato. Il governo italiano è pieno di donne importanti. A gestire una guerra è una donna, Roberta Pinotti, e le riforme hanno nomi di donna, Maria Elena Boschi e Marianna Madia.
Cambia qualcosa? Si potrebbe dire che più ci sono donne visibili e potenti, più diventa chiaro che la parità è un obiettivo necessario eppure fasullo. Un trucco da agitare, se non diventa vera equità sociale. A che serve il 50e50, se il welfare viene smantellato? Se l’aborto incontra un’obiezione di coscienza quasi al 70 per cento, rendendo a volte inevitabile il ricorso al mercato clandestino, salvo poi essere multate, le donne, per questa illegalità? E se le madri singole non hanno i supporti necessari non possono che risultare quello che sono: le più povere, in tutti gli indici di povertà.
Per questo i femminismi sono più vitali che mai. Essere donna è sempre l’occasione di una presa di coscienza, dell’occasione di diventare una soggettività attiva, politica. Un accumulo di forza da spendere. Per sé, per il mondo, per la propria libertà, per la libertà di tutte e tutti.