C’è rischio di dire sempre le stesse cose di fronte a uno scenario di sangue nel quale maschi sono gli assassini e donne le vittime. A Catania, nella notte tra il 31 gennaio e il primo febbraio, Luana Finocchiaro strangolata – secondo i carabinieri – dall’ex convivente. Lei non voleva più saperne di lui. L’aveva denunciato più volte.
A Brescia, marito depresso – pare – per motivi economici, accoltella la moglie, Marinella Pellegrini.
A Pozzuoli, lotta per sopravvivere Carla Caiazzo, bruciata dal compagno. Incinta, con il taglio cesareo ha dato alla luce una bambina.
Finiamola qui. Anche se lo sterminio non finisce. Soprattutto nello spazio privato, nelle relazioni famigliari. Sia chiaro. “I femminicidi sono solo la punta dell’iceberg” (Linda Laura Sabbadini che dirige il dipartimento per le statistiche sociali e ambientali dell’Istat) così come l’odio nei confronti di un sesso non è esclusiva dell’Italia. D’altronde, non emerge dalle file del gruppo nigeriano Boko Haram l’assassino di Pozzuoli.
Certo, ogni situazione violenta ha la sua specificità. Però tutte le situazioni violente appartengono a un medesimo ordine simbolico, che è patrilineare e patriarcale.
Contro le donne la volontà di potenza significa uccidere, violare, oltraggiare. Verbi che non possono ridursi a problema penale. Appartengono a un universo culturale (e sociale) tenuto insieme dal rapporto tra i sessi.
L’hanno capito le donne che non sopportano più la pretesa maschile del possesso. “E quel che più importa, io allora la consideravo mia, né dubitavo del mio potere. Sapete, è un pensiero gradevolissimo, quando non si hanno più dubbi” (il personaggio del marito nel racconto di Dostoevskij La mite). Ma neppure si vendicano con il tentativo di sovvertire l’ordine costituito attraverso una fine autopunitiva (in Anna Karénina o Madame Bovary).
Oggi, per merito dell’altra metà del cielo, non si da più soppressione del femminile dall’ordine del discorso. D’altronde, la società tollera sempre meno i gesti di ferocia di un sesso sull’altro.
Per la discussione il terreno è accidentato. Le tracce di maschilismo non sono le stesse a Pozzuoli, nella notte del 31 a Colonia, a Raqqa, ma la macchia della violenza lambisce gli uomini, tutti.
Dal momento che questa macchia concerne una responsabilità maschile, per ciò che capisco e vedo, bisogna che gli uomini ripartano da sé. Che badino alla reputazione del proprio sesso. Alcuni ci stanno provando.
Non si tratta di salire in cattedra con l’assicurazione: “Eccomi, sono io – maschio – che vi difende” ma di rintracciare nei dispositivi culturali le forme della violenza. Succede, con una fruttuosa collaborazione, nelle formazione degli insegnanti e nella discussione tra insegnanti maschi e femmine sul bullismo.
Tuttavia, questo sarebbe ancora poco senza la ripulsa non solo da parte delle donne ma di ogni uomo, degli strumenti di comunicazione, della società nel suo insieme nei confronti di quel comportamento predatorio che non è scomparso.