Pubblicato sul manifesto il 26 gennaio 2016.
Confesso di essere rimasto colpito, quasi ammaliato, dall’intervista di Beppe Grillo al Corriere della sera nella quale annuncia l’intenzione di tornare al suo mestiere di comico. Sia pure con uno spettacolo in cui sdoppierà se stesso, mettendo in scena il “caso clinico, disperato, tragicomico” di un attore diventato capo politico quasi malgré lui.
Nei suoi confronti ho sempre avuto reazioni ambivalenti. Non mi divertiva molto come comico. E mi ha fatto orrore il “vaffa…” come programma politico fondamentale. Tuttavia mi sono accorto abbastanza presto che la sua predicazione andava scoprendo in considerevole anticipo sui partiti – specialmente quelli di sinistra – i temi sui quali stava montando un sempre più diffuso, fondato e inascoltato malessere sociale. Le truffe del mondo finanziario, il precariato giovanile, le aggressioni all’ambiente, l’insofferenza via via più acuta per la pochezza e la corruzione di un ceto politico che si è ampiamente meritato il sorgere della cosiddetta “antipolitica” e del disinteresse, e il disprezzo, per le istituzioni e la pratica della democrazia rappresentativa.
C’è poi la curiosità specifica per un personaggio e un fenomeno nati in quel di Genova. La mia città è per certi versi fascinosamente impenetrabile. Il grigiore (ma il grigio delle ardesie è bellissimo) e la proverbiale tirchieria si accompagnano a generosissime solidarietà, imprevedibili slanci fantastici, e a strane forme di religiosa anarchia. Mazzini e Paganini. Fabrizio De Andrè e Don Gallo. O un terzetto come appunto Beppe Grillo, Renzo Piano, Gino Paoli, sullo sfondo di una genia di musicisti geniali.
Ma la frase che più mi ha intrigato è quella con cui l’intervista si chiude: “…Io sono solo una specie di traduttore di deliri. E per me il delirio è una buona cosa”.
La parola deriva dal tardo latino delirium, che vuol dire allontanamento dal solco, dal tracciato (lira). Ma non è un semplice “andar fuori dal seminato”. Dal sogno allucinato si arriva alla psicosi, alla schizofrenia.
E l’idea che il teatro comico possa contribuire a una sorta di psicanalisi di massa (Luciano Canfora ha evocato addirittura Aristofane) nel mondo alienato e alienante in cui viviamo non è priva di qualche attrattiva.
Non siamo forse circondati da fenomeni deliranti?
La Rai dell’era ultratecnologica – per restare alle pagine degli spettacoli – sembra volersi rilanciare affidando al mite Fazio una nuova edizione del Rischiatutto (forse è questa la vera parola d’ordine del renzismo? La rottamazione come eterno ritorno dello spettro di Mike?).
E passando alle cose serie leggiamo del trauma del prezzo del petrolio che si inabissa mentre le estrazioni e la distribuzione dell’oro nero si moltiplicano, contravvenendo alle leggi elementari della domanda e dell’offerta. L’Europa pensa di esistere socializzando monete e respingendo esseri umani, contravvenendo ai più elementari principi di giustizia e di buon senso… (L’elenco, dalle città fantasma cinesi al caos bellico in Medioriente, potrebbe continuare a lungo)
Dunque il delirio è probabilmente la categoria di interpretazione che ci serve. Il mondo non è solo shakespearianamente “fuori dai cardini”, sembra sul ciglio di un abisso, prima di tutto mentale.
Dobbiamo riprendere in mano testi illuminanti come Delirious New York di Rem Koolhaas e i densi tomi di Millepiani di Deleuze e Guattari, adeguatamente sottotitolati Capitalismo e schizofrenia?
O quantomeno sperare, e agire, perché questa volta la risata più che seppellire l’”avversario” ci aiuti prima di tutto a disseppellire noi stessi?