Immaginiamo una foto ideale, che raggruppi i leader della sinistra europea. Accanto ad Alexis Tsipras e Pablo Iglesias, che tante volte si sono trovati insieme sullo stesso palco, oggi lo scatto includerebbe senz’altro James Corbyn, il nuovo segretario del Labour Party inglese. E nell’impatto visivo, prima di qualunque analisi delle storie, posizioni, prospettive politiche di ciascuno, una differenza balzerebbe subito agli occhi: la differenza di età. La prestanza fisica dei leader mediterranei, che hanno rispettivamente 37 e 41 anni, è di immediata evidenza, almeno quanto i segni del tempo sul viso di Jeremy Corbyn, 66 anni. Ora, non è per gusto del gossip se qui ci si focalizza sull’età. È che nei tempi recenti l’anagrafe è stata trasformata, soprattutto in Italia ma non solo, in una categoria della politica.
Per questo ritengo utile osservare gli intrecci tra l’assunzione della data di nascita dei leader come fattore di cambiamento, le speciali caratteristiche del “nuovo” di cui sarebbe portatrice, l’età anagrafica dei protagonisti, e le culture politiche di cui sono portatori. Intrecci che il discorso corrente dei media tiene fuori scena, anche se ne fa un asse comunicativo centrale. Ne nascono forti effetti distorsivi, che pesano soprattutto sulla mentalità comune.
E per dare forza al ragionamento, per produrre qualche risultato che vada oltre le pure descrizioni, occorrono altre due foto, non più di gruppo ma ritratti. Il primo è quello di Matteo Renzi, 40 anni, si può scegliere tra gli scatti con il chiodo di pelle nera o quelli istituzionali in abito scuro. A lui si deve l’introduzione della giovinezza nella scena politica contemporanea come fulcro oggettivo, e nello stesso tempo significante, di qualunque novità. Di fatto, è il presidente del consiglio più giovane che ci sia mai stato in Italia. Il secondo ritratto è quello di papa Francesco. Un uomo di 79 anni, impegnato in una profonda opera di cambiamento. Tra le innumerevoli immagini, ne scelgo due, quella mostrò a tutti che sotto le veste bianca continuava a portare le sue vecchie scarpe nere, e una delle più recenti in cui con il volto preoccupato e severo parla dalla finestra di Piazza San Pietro di corruzione e potere.
Altrettanto essenziale è la bacheca, la chiamo così, su cui si appuntano le foto, ovvero il contesto: la violenta e feroce guerra in corso nella scena politica e sociale. Guerra di idee, in Italia, in Europa e non solo, uno degli aspetti centrali della lotta per l’egemonia e il potere, che si combatte senza esclusione di colpi. Una lotta che in questi tempi post-democratici, per non dire populistici, parla quasi esclusivamente attraverso il volto e il corpo dei suoi protagonisti. Per questo parto dalle foto. Ci sono linee, dinamiche, scambi che vale la pena di guardare in quelle immagini: possono diradare, questa è l’ipotesi, le nebbie in cui affonda –viene affondata – la coscienza politica di popoli che sempre meno hanno a disposizione vie per la consapevolezza della propria condizione.
Il mito del nuovo
Il mito del nuovo è forse il più pervasivo delle molte produzioni di immaginario scaraventate sulla mentalità collettiva. E il più efficace, perché può essere il più illusorio, il più manipolatore. Ripetitivo e ossessivo, il nuovo che avanza prende mille aspetti diversi, è mutevole e ingannevole per definizione. Eppure sempre promettente, cosa c’è di più attraente di un nuovo entusiasmo, di un nuovo abito, una nuova moda, una nuova idea? Entra in forte risonanza, il mito del nuovo, con uno dei più comuni desideri umani: non essere inchiodati al proprio destino, sperare di cambiare, migliorare, avere la speranza di poter lasciare la sofferenza che ci affligge, essere felici. C’è un elemento drammatico, nella manipolazione: il sogno di cambiamento viene stravolto e orientato a mantenere lo status quo, invece che a sovvertirlo, a conservare il potere delle élites, invece che ribaltarlo.
Perché non è nuovo per niente, il mito del nuovo, se è permesso un facile gioco di parole. È almeno dagli anni ottanta che il nuovo che avanza è una categoria utilizzata per liquidare la sinistra, in tutti i suoi aspetti: movimenti, organizzazioni, legami sociali, orizzonti ideali. Un mito che ha avuto nei decenni successive incarnazioni, dall’edonismo reaganiano, versione italian-televisiva cioè addomesticata delle dottrine neoliberiste dei terribili Chicago Boys, Milton Friedman & Company, fino alla terza via di Tony Blair e del suo ispiratore e interprete Anthony Giddens. E nel tempo, quello che ancora fino all’inizio dei Novanta era stato percepito come backlash se non proprio riflusso, è diventato un pilastro dell’immaginario, della mentalità collettiva. A idee e pratiche sociali come giustizia, uguaglianza, cambiamento, invenzione sociale, pensate come elementi qualitativi portanti della costruzione politica e sociale, si sono via via sostituite competizione, merito, successo, e infine il denaro, l’equivalente universale diventato definitivamente l’unica misura della qualità e del valore, sia di un oggetto che di un umano. È stata una demolizione metodica, facilitata certo e perfino favorita da errori e fragilità, ma non è questo il punto, fin troppo la sinistra si è esaminata alla ricerca delle proprie responsabilità, rifiutando di vedere ciò che è successo, la sconfitta. Il punto è l’approdo: il principio di stabilità, che si è fatto universale e indiscutibile. E nuovo. Affascinante in un campo trasversale, utile a rimescolare le carte. Per esempio nelle vesti della “governabilità”, idea fondata sulla funzionalità che ha guidato in Italia la transizione dalla prima alla seconda repubblica. E soprattutto sul piano economico.
Come deve essere l’economia di uno Stato? Stabile, calma, tranquilla, in ordine, come i bilanci di un’azienda che funziona. Come se il campo economico avesse smesso di essere quello spazio caotico, tumultuoso, attraversato da forze contrastanti in competizione tra loro che si è sempre conosciuto. Come se i mercati fossero davvero razionali, per dipiù in epoca di finanz-capitalismo, per riprendere la fortunata denominazione di Luciano Gallino, appena scomparso e che qui ricordo. Perché l’irruzione della crisi, a partire dal 2007, ha dato ancora una nuova sfumatura, una più radicale torsione, alla mitizzazione del nuovo, e ai suoi effetti negativi. Effetti confermati dalla tabuizzazione di altri concetti, altre aeree di idee. Come era possibile comprendere quanto è avvenuto nella crisi se una parola come ‘conflitto’ è stata praticamente abolita dal lessico politico, tuttalpiù confinata alle dinamiche individuali? Se ‘conflitto sociale’ era stato accuratamente cancellato perfino dalle relazioni sindacali, nei luoghi di lavoro? Una confusione, una nebbia che nel procedere della crisi si è in parte dissolta. Ma tuttora il ‘nuovo’ del discorso corrente coincide con un progetto d’ordine, in modo speciale in Europa. Regolamentazione, imbrigliamento, creazione di sfere diversificate.
Ci vuole una notevole capacità di manipolazione per dare alla governance europea le vesti del nuovo che avanza. E tensioni e scontri sociali, che nella crisi per forza delle cose hanno riconquistato l’attenzione comune, tuttora vengono ri-elaborati e ri-condotti all’interno della dinamica nuovo-vecchio senza altre connotazioni, avendo come sottotesto un intreccio costante con le dinamiche generazionali. Per cui, se la parola “giovane” si affianca con facile naturalezza a “nuovo”, quasi sinonimi, l’altro vertice è sempre “vecchio”. Il vecchio anagrafico è anche il vecchio sociale e ideale. E viceversa, il vecchio sociale e ideale è anche il vecchio anagrafico. Dunque vecchio versus giovane-nuovo. È un dispositivo potente, opera nel linguaggio, nella produzione di idee. Ordina e regola figure sociali. Almeno finché non venga sbaragliato, messo sottosopra.
Il poema della rottamazione
Era il 29 agosto 2010. Il titolo del quotidiano Repubblica era di quelli che non si dimenticano: “Il Nuovo Ulivo fa sbadigliare. È ora di rottamare i nostri dirigenti”. Era la prima volta che quella parola, rottamazione, irrompeva nella scena politica italiana. L’allora sindaco di Firenze, Matteo Renzi, era partito all’attacco. Inesorabile, nell’intervista aggiunge “senza incentivi” e li elenca, nome per nome, quelli che vuole rottamare. “Un’intera generazione” di dirigenti “vecchi”. E ancora più esplicito: “da azzerare”. Non è tema di questo articolo ricostruire la vicenda politica di Matteo Renzi, la sua via per conquistare la leadership che in quell’intervista diceva non essere affare suo. Le primarie del centrosinistra per la candidatura a presidente del Consiglio perdute contro Bersani nel 2012, la segreteria del Pd vinta nelle primarie del partito dell’8 dicembre 2013, la nomina a presidente del Consiglio di fine febbraio 2014, dopo il celebre tweet al presidente fino ad allora in carica, del suo partito: «Stai sereno». Si considera qui per acquisito che l’obiettivo di Renzi al governo sia l’aumento del potere del presidente del Consiglio, ovvero di sé stesso, in una realizzazione –diciamo così – personalizzata degli obiettivi della governance europea, e che per questo occorre considerare il suo operato “partendo dal versante del governo che è la collocazione naturale e imprescindibile del fenomeno renzista. Senza l’entità governo il renzismo, come fenomenologia politica, non esisterebbe”, ha scritto Alfonso Gianni nello scorso numero di questa rivista. (“Renzismo. ‘Misera Italia e tutta Europa intorno’”, Alternative per il socialismo, n. 37). Che la sua politica, nonostante i toni populisti, abbia come obiettivo e risultato reale l’impoverimento degli strati sociali più deboli, l’arricchimento di quelli benestanti o più.
Ciò che qui interessa è la figura della rottamazione, la sua doppia natura di retorica violenta del giovane-nuovo e di brutale azione politica volta alla conquista del potere. Il giovane Matteo Renzi si presenta sulla scena politica come il campione di trenta-quarantenni. Indossa il chiodo e i jeans di Fonzie, icona generazionale di chi è cresciuto guardando Happy Days, interpreta il ragazzo terribile e ribelle che chissà se è mai stato sul serio, fa la parte di chi rompe tutte le cristallerie dei salotti imbalsamati. Si ricorderà che il tema dell’immobilismo italiano era da lungo tempo presente nella rappresentazione mediatica, affiancato da titoli ricorrenti: “questo non è un paese per giovani”, ricorrente almeno quanto l’altro, “questo non è un paese per donne”. Il punto interessante è che è vero, giovani e donne sono fuori, marginali, senza potere. E altrettanto vero è che il passaggio generazionale, punto delicato di ogni società umana, è più arduo nella modernità che ha abolito ogni ritualizzazione, e non segna più i confini in un presente indistinto in cui tutto è mescolato, contaminato, fluido. E soprattutto in Occidente, dove gli anziani aumentano di numero, e tra loro – tra i maschi – è in proporzione più numeroso e conta di più, rispetto alle altre fasce di età, il gruppo degli abbienti e ricchi, proprio perché più hai disponibilità di mezzi, più hai speranza di vita.
E per quanto riguarda il potere, se le democrazie hanno da tempo cancellato la logica cruenta del “Ramo d’oro”, così mirabilmente raccontato da James Frazer, e nessun re, da lungo tempo, viene più ucciso nel bosco di Nemi, da dove viene allora, la rottamazione, che cosa indica? “Il lessico del ribelle come scrittura del libro del potere”, lo definisce efficacemente Marco Revelli nel suo ultimo libro “Dentro e Contro. Quando il populismo è al governo” (Laterza). E quando è andato al governo, con il sostegno del “vecchio” presidente Giorgio Napolitano, Renzi per rappresentare il nuovo ha scelto ministri giovani, e donne. Ha cioè dato corpo e immagine all’azione del rottamare, ha cioè spostato l’attenzione dall’azione effettivamente compiuta, e per un attimo ha fatto credere che la presa del potere coincidesse con un cambiamento reale. Attraverso “l’evocazione sistematica, ossessiva, (e ossimorica) della rottura – del nuovo inizio, del cambiar verso, della rottamazione appunto – posta al servizio del peggior continuismo” (Marco Revelli). E non è un dettaglio che dell’azione facesse parte la liquidazione di ogni residua idea di progressismo sociale che possa far parte del suo governo. Oggi, nel novembre 2015, se si clicca su Google ‘rottamazione’ (unitamente al nome di Renzi) si trovano una lunga serie di articoli che chiedono conto al premier stesso di una rottamazione non portata a termine. Senza entrare nel merito, quello che interessa qui è che la parola è stata acquisita, e il rottamatore, dice il sito della Enciclopedia Treccani, “non è certamente chi lavora nel campo dei rottami, chi smantella vecchi macchinari, ma oggi gli è stato dato il significato, proprio per antonomasia, di chi vuole fare piazza pulita nella politica di personalità ormai ritenute fuori dal tempo, che appunto hanno fatto una carriera troppo lunga e che devono essere, per questo motivo, sostituite da nuovi soggetti politici che portino idee nuove nella politica”. La rottamazione, sinonimo di giovane-nuovo distrugge, fa fuori vecchie classi dirigenti e vecchie idee di sinistra. È dunque il ritratto di Matteo Renzi che appuntiamo per primo al centro della nostra ideale bacheca.
Il sorriso contagioso di Alexis Tispras
Quando nel 2013 Alexis Tsipras viene indicato dal Partito della Sinistra Europea come proprio candidato alla presidenza dell’UE, ha alle spalle Syriza, il partito che in Grecia ha compiuto il miracolo di unire una sinistra da sempre litigiosa. Una sinistra che ha smesso di occuparsi di sé, delle proprie dinamiche, delle relazioni tra gruppi più o meno ossificati. Un partito che da quando Tsipras ne è diventato il presidente, nel 2008, ha visto aumentare i suoi voti, fino alla vittoria elettorale. Una meta che sembrava impossibile. Syriza è senza dubbio nuova, indica una possibilità per la sinistra segnata da anni di frantumazione e marginalità. Il suo giovane leader è pragmatico e popolare. Il sorriso contagioso, la spontanea empatia rappresentano con efficacia la nuova strada di questa nuova sinistra, che in campagna elettorale dice al popolo stremato dall’austerità: vota per la tua vita, promettendo di prendersene cura con misure che ripristinino un minimo di welfare. Fino ad arrivare a essere il primo partito: con il 26% nelle elezioni europee del maggio 2014, e con il 36% nelle elezioni politiche del gennaio 2015 che portano Tsipras al governo del suo paese. Primo davanti a Nea Dimokratia, il partito di centrodestra europeista guidato da Antonis Samaras, mentre il Pasok, il partito socialista, è ridotto a un misero 4,6%. Questo fa di Alexis Tsipras un rottamatore?
Il giovane leader, nel 2008 aveva 34 anni, ha portato alla vittoria la Coalizione della sinistra radicale, questo è il nome per esteso del partito di cui Syriza è l’acronimo, di ispirazione di ispirazione socialista democratica, ecosocialista, anticapitalista, no-global e marxista per fare fuori “vecchi” dirigenti? La cultura politica che lo ispira, potrebbe essere assunta come “nuova” nell’ottica mediatica corrente? «Io sono come Renzi, voglio cambiare verso all’Europa» disse Alexis Tsipras nel gennaio 2015, invitando a nozze il flusso mediatico che per qualche tempo ha alimentato l’idea di leader giovani, – attraente nessuno si è mai azzardato a dirlo di Renzi – forti di un largo consenso, egualmente protesi per il nuovo. In pochi si sono curati di approfondire. La cultura politica di Tsipras ha radici nei movimenti alter-mondialisti e no-global, e quanto ai riferimenti teorici, ha avuto più volte modo di dire quanto apprezza Gramsci, Berlinguer, la sinistra italiana. Quanto di più vecchio si possa immaginare. Del resto i fatti si sono premurati a smascherare l’equivoco. Jannis Varoufakis, che pure è in disaccordo con le scelte di Tsipras, lo ha raccontato con chiarezza, dopo la fatale notte del luglio 2015, quella in cui i leader hanno costretto all’accordo che fino ad allora aveva rifiutato:
“Cosa è successo? Tra il 12 e il 13 luglio il mio Primo ministro Alexis Tsipras è stato sottoposto a insopportabili aggressioni, veri e propri ricatti e pressioni disumane dai leader europei, compreso Matteo Renzi che si è rifiutato di discutere le nostre ragionevoli proposte”, scrive. Il premier tricolore “ha recitato un ruolo centrale nell’aiutare a piegare Tsipras, con la sua tattica del poliziotto buono basata sulla narrativa del “Se non ti pieghi questi ti distruggono, per piacere digli di sì”. Della opposizione giovane-vecchio, se ne è persa la traccia, nel racconto mediatico, per quanto riguarda la Grecia e Alexis Tsipras. Il suo nuovo governo, insediato dopo le elezioni del settembre 2105, è impegnato in una prova aspra: difendere le ragioni del nuovo, cioè le politiche di sostegno ai più deboli nonostante il pesante memorandum imposto dai leader europei. Il progetto è che lo stretto sentiero imboccato porti alla ridiscussione del debito. Per la Grecia, per tutta l’Europa, insieme a tutta la sinistra, che si oppone all’austerity. Nella foto di gruppo, nonostante i problemi, non si è perso il sorriso del giovane leader che vuole cambiare l’Europa e il suo paese con le ragioni più antiche della sinistra, la giustizia sociale.
Il giovane leader nato in tv
Dove il mito del nuovo ha qualche buon argomento è senz’altro in Spagna. Podemos e il suo leader Pablo Iglesias Turrion non assomigliano a nulla del passato. Il partito è addirittura più giovane del suo leader, ricercatore di Scienze politiche all’Universidad Compiutense di Madrid, dotato di grande comunicativa, apprezzato commentatore televisivo, protagonista dell’incredibile performance di Podemos, che ha scelto di utilizzare il suo bel volto, molto più noto del neonato partito, presentandosi alle elezioni europee del 2014, dove alla prima prova ha ottenuto un inaspettato 7,9%. E gli eccellenti risultati delle successive elezioni amministrative. Percepito come pericoloso, in grado di cambiare gli equilibri politici del paese, nonostante che gli ultimi sondaggi in vista delle elezioni politiche del prossimo 20 dicembre non siano brillanti come in passato, e le evidenti difficoltà delle alleanze o meno con le varie parti della sinistra, più che nuovo Podemos è stato bollato come partito antisistema. Ovvero il nuovo di cui è portatore viene riconosciuto come eversivo. “La parola ‘antisistema’ ha assunto un significato molto negativo nei mezzi di comunicazione. Si identifica più o meno con gli hooligans che provocano disordini pubblici. Il termine si utilizza abitualmente per attaccare i movimenti sociali e per criminalizzare la protesta sociale” scrive Pablo Iglesias, nel suo manifesto politico “Democrazia anno zero”, appena tradotto in italiano (Alegre). E richiamando le teorizzazioni di Immanuel Wallerstein, sui due grandi movimenti antisistema dell’umanità, il movimento operaio e il movimento di liberazione nazionale, osserva: “i diritti civili e politici, il suffragio universale, il diritto di libera associazione e quello di riunione, la giornata lavorativa di otto ore, il diritto a un sistema sanitario ed educativo pubblico, il fatto che ci sia la contrattazione collettiva sono una conseguenza storica dell’azione dei movimenti antisistema”. Insomma, il nuovo di Podemos non si presta a nessuna manipolazione mediatica, se non quella della criminalizzazione. L’obiettivo è di renderne inutilizzabile la forza elettorale, o diminuirne il potenziale, facendolo percepire come inutilizzabile. Aspetti, che unitamente al peso della complessa vicenda greca di Syriza e Alexis Tsipras, di cui Iglesias è da sempre un convinto sostenitore e buon alleato, pesano certamente anche sui sondaggi. Il nuovo di Podemos è una cultura politica di sinistra contemporanea, critica verso il passato, ma che non rifiuta la propria genealogia. Anche se punta il dito contro il conservatorismo di sinistra: “Chiunque abbia militato in un partito di sinistra sa bene che le logiche interne spesso possono imporsi e occupare buona aprte del tempo della militanza…Tutto ciò porta a forme del fare politica assolutamente, vecchie, prudenti, conservatrici” cioè poco adatte a tempi che richiedono scelti audaci. Ecco qui una chiara opposizione tra vecchio e nuovo. Ma si può in qualche modo assimilare al dispositivo della rottamazione? O alla retorica anti-casta del 5stelle italiani a cui spesso Podemos è assimilato?
Il nuovo Labour dell’antico Jeremy
C’è una new entry, nella foto di gruppo della sinistra europea. Nuova per modo di dire, visto che Jeremy Corbyn fa politica dal 1974 e siede in Parlamento per il Labour Party ininterrottamente dal 1983, nel seggio di Inslington North a Londra. Ma nel partito di Tony Blair, le coerenti posizioni da minoranza di sinistra del vecchio Jeremy, appaiono una minacciosa novità. Welfare, sostenibilità ambientale, anti-privatizzazioni, attivista pacifista, perfino repubblicano, tanto non cantare l’inno in pubblico, nel primo incidente mediatico appena eletto. I media britannici, non solo quelli conservatori, hanno subito trovato il frame, la cornice in cui collocare il nuovo segretario del Labour Party, eletto a sorpresa il 12 settembre 2015. Jeremy Corbyn è vecchio, molto vecchio, lo confermano le foto, scelte in una sovrabbondanza di rughe e di ombre. È vecchio come le sue idee., sostengono. Potrebbe quest’uomo governare? Potrebbe far vincere il Labour? Sono le domande ricorrenti. A parte il dileggio quotidiano di giornali come il Telegraph, è stato l’establishment blairiano del partito a rimanere spiazzato dalla scelta dei militanti di base che lo hanno portato alla vittoria. Perfino l’impeccabile Bbc, in grado di gestire con professionale neutralità qualunque situazione, non ha ancora trovato il modo di affrontare questo leader a sinistra di Blair. Una sinistra che improvvisamente ha ritrovato parola pubblica e riporta in luce una tradizione politica che non è mai scomparsa, ma era stata semplicemente cancellata. E per questo non ha reti di sostegno nel sistema mediatico. In occasione della diretta del discorso inaugurale del neo-segretario, nello studio televisivo della Bbc era presente per commentare Lance Price, ex-consigliere di Tony Blair, che mentre sfumavano gli applausi attacca: “Non sono un fan della leadership di Corbyn. E non mi aspettavo molto. Ma è stato molto molto peggio di quello che mi aspettavo. È stato un discorso terribile».
Allora, è nuovo, il vecchio Jeremy? O terribile, come pensano Blair e i suoi seguaci?. La sua cultura politica, la difesa del lavoro, il rispristino di settori di welfare in disarmo, la scelta europeista, sono idee abbastanza nuove da permettergli di governare? I militanti che lo hanno scelto pensano di sì. Per gli elettori bisognerà aspettare, una delle battaglie più difficili sarà quella contro i media, che vogliono affondarlo nel suo passato marginale. Si potrebbe dire che se con il voto Corbyn ha rottamato l’establishment conservativo del suo partito, ridotto a un blairismo senza mordente, ben più efficacemente rappresentato nell’istanze neoliberiste dal premier conservatore David Cameron, il sistema mediatico ha già cominciato a definirlo forza antisistema. E così nella foto di gruppo il vecchio Jeremy si affianca al giovane Pablo, e al diverso e altrettanto giovane Tsipras, unico fra loro a guidare un governo.
Le scarpe di Bergoglio
Sarà perché dai Papi non ci si aspetta la giovinezza, che nessuno si azzarda a definire “vecchio” papa Francesco. Eppure con i 79 anni che sta per compiere, è nato il 17 dicembre 1936, non ci sarebbe nulla di sconveniente, è la realtà, sarebbe il primo convenirne. Ma non è la reverenza a impedire questa osservazione. Come si potrebbe applicare la categoria del “vecchio” – cioè quello che va rottamato, per stare al contesto qui delineato – al leader che con più forza oggi mette in campo il cambiamento? Innovazione autentica, non effetti illusori di un racconto mediatico che papa Bergoglio mette sottosopra. L’anagrafe sparisce rispetto all’ampiezza della sua azione, del tutto nuova eppure radicata in un passato molto presente. Mi spiego. In primo luogo papa Bergoglio ha a disposizione i Vangeli. Un testo complesso, frutto di una scelta tra diverse narrazioni, costruito nella forma attuale attraverso successive redazioni e sovrapposizioni, e conservato nel tempo da un’istituzione millenaria, la Chiesa, che non li ha più perduti, anche se è difficile dire che ne abbia messo in pratica gli insegnamenti. Essendo un testo sacro, cioè posto fuori dal confine dell’umano errare e fallire, si può sempre leggerlo daccapo, parole antiche che diventano ogni volta parole nuove. Ma se i Vangeli sono sempre disponibili per chiunque abbia fede, e perfino per chi non ce l’ha, l’uomo Bergoglio mette in campo nella sua azione la propria cultura, la propria formazione. Non solo la classica formazione del gesuita, ma l’entusiasmante avventura della Chiesa della sua giovinezza: il Concilio Vaticano II, le Costituzioni Conciliari accanto alle elaborazioni della teologia della liberazione in America Latina, di cui Jorge Mario Bergoglio non ha accolto la versione più vicina al marxismo, ma che non ha mai respinto, anzi. Culture pastorali, teologiche e politiche elaborate negli anni sessanta, che ispirano l’azione quest’uomo di quasi ottanta anni.
È questa osservazione, in realtà molto semplice ma poco rilevata, che mi ha sollecitato a riflettere sulle figure del nuovo, oggi attive nella scena politica e mediatica, a cercarne una lettura che rivelasse una trama di relazioni che di solito rimane sottotraccia. Con il ritratto di papa Francesco la bacheca ideale immaginata in apertura dell’articolo si completa, il dispositivo “vecchio versus giovane-nuovo” si svela nelle sue svariate articolazioni per quello che è, una macchina per produrre consenso e nello stesso tempo distruggere idee ritenute sovversive, poco importa se incarnate da giovani o vecchi. Del resto, è solo la sfera del sacro e l’immensa popolarità che impedisce alla stampa mainstream di definire antisistema papa Francesco. Cosa che già avviene, da parte di molti nemici, compresi coloro che tramano per bloccarne l’azione.
Perché è molto forte la luce che scaturisce dall’azione del Papa. Neppure le zone d’ombra nel terreno delle relazioni umane, del gender, della procreazione, dove nulla per ora cambia, la attenuano. Quando parla dei diritti dei lavoratori, per esempio, a ricevere una pensione, o del diritto delle donne a una pari retribuzione. O quando sottrae le vicende della Curia, comprese le più sgradevoli, alle ombre dei retroscena e dei gossip. Ciò che scuote è che abbia deciso di dedicare tutto il potere di cui l’essere papa lo ha investito, a cambiare dalle fondamenta la Chiesa. E che abbia deciso di farlo in aperto scambio con il mondo, ben più ampio della sua Chiesa, mondo che da questo scambio può trarre forza simbolica, coraggio delle proprie idee, così necessario per agire il cambiamento.
Le scarpe di Bergoglio sono consumate, vecchie. Le vie del nuovo che quelle scarpe possono percorrere – scarpe ordinarie, scarpe di tutti –non saranno infinite, mi viene da dire guardando la bacheca che qui ho disegnato, ma certo ben più vive e articolate di quanto in certi momenti sconsolati capita di pensare. Di sicuro non hanno l’età anagrafica come barriera. In tutte le direzioni e gli intrecci possibili.
FONTE: Alternative per il Socialismo n.38
Del numero si discuterà a Roma l’11 gennaio alla Fondazione Basso, via delle Dogana Vecchia 6 alle ore 17 con Alfonso Gianni, Stefano Fassina, Maurizio Landini, Bia Sarasini, Fausto Bertinotti