L’idea era quella (nel Gruppo delle femministe del Mercoledì) di una giornata per ascoltarci. Per seguire cronache inquiete di esistenze in conflitto, dubbi che affiorano in una società a tratti ancora patriarcale. Dipanare la matassa tra voglia di famiglia e inadeguatezza a rispondere da parte delle istituzioni.
Cercare la legittimazione, anzi, il riconoscimento di un patto, la possibilità di un futuro con un figlio. Molte domande. La necessità di riflettere su scenari ancora confusi. Ci voleva una buona dose di ottimismo in questo tempo buio nel quale uomini e donne muoiono “perché” bevono un bicchiere di bianco, “perché” ascoltano musica. Oppure vengono colpiti in un centro commerciale, allo stadio, in una clinica per disabili di San Bernardino in California.
Non è facile paracadutarsi a “Curare la differenza” in questo tempo di massacri e di paranoici che massacrano. Di verità inespugnabili e di certezze difese con il kalashnikov. Ma appunto, il tentativo (alla Casa internazionale delle donne, domenica 22 novembre) era quello di prestare attenzione anche senza necessariamente condividere. Seguire un filo con la pratica che è di molte donne, quella del “partire da sé” e dello sguardo lungo sulla vita, sui sentimenti, sui desideri, evitando i comportamenti logori di una certa politica (maschile?) fatta di appelli, contrappelli, raccolta di firme.
Cercavamo delle risposte alla domanda d’amore, al rifiuto della solitudine, alla disperata volontà di non venire escluse/esclusi dal desiderio di un bambino. Bisognava muoversi in punta di piedi. Soprattutto, di fronte a un nodo nel quale rischiamo tutti e tutte di perdere la nostra umanità.
Di mezzo, appunto, sta il bambino che ha, che dovrebbe avere uno statuto sociale giacché si colloca nel mondo e nei rapporti di parentela, nella genitorialità affettiva e nella filiazione reale.
Non si può parlare soltanto di autenticità biologica, di gameti, di utero quando sono in ballo legami simbolici, sentimenti, scambio, patto, mercato, commercializzazione, gratuità. Certo, il dono di sé, del proprio corpo, dei nove mesi che fondano una relazione particolarissima, quella tra madre e figlio, viene da donne in genere più bisognose che altruiste. Per non parlare del brutale sfruttamento in alcune parti del mondo. La coppia gay (ma soprattutto eterosessuale, giacchè da qui viene la maggiore domanda di “gestazione per altri”) deve su questo porsi degli interrogativi; sapere che si aprono enormi contraddizioni.
Si aprono negli Stati Uniti, o in Canada, dove vige una cultura contrattualistica, e si aprono pericolosamente in Europa (o almeno nel nostro paese) dove il ricorso alla legge conduce al divieto, alle proibizioni, alle penalizzazioni crescenti.
E allora, il disegno di legge Cirinnà sulle Unioni civili? Forse non è particolarmente efficace, forse è appesantito da opportunismi politici e da mediazioni al ribasso (come il riconoscimento del figlio del partner che sembra ora verrà stralciato e demandato a un provvedimento ad hoc) ma intende sanare lesioni materiali, sociali che si trascinano da anni. Di più. Questa sorta di equiparazione – anche se sbilenca – alle coppie eterosessuali, probabilmente aiuterà a erodere la discriminazione e il pregiudizio. Il guaio è che questa legge arriva (se pure arriva) con grande ritardo, in una sorta di sfinimento che ha sottratto forza alla discussione pubblica.
Sulla primazia femminile rispetto alla nascita il femminismo si è molto impegnato. Certo, gli uomini hanno percorso la strada con maggiore lentezza rivendicando per sé un ruolo paterno che ancora qualche anno fa rifiutavano. Ma le donne, per parte loro, hanno risposto – almeno questo sento nelle prese di posizione e nei dibattiti – con una sorta di diffidenza che sfiora il pregiudizio. Temono un ritorno a comportamenti patriarcali. Non hanno dimenticato (e d’altronde come potrebbero, dato che non sono scomparse?) le violenze, le diverse forme di dominio, di oppressione maschile. Sullo sfondo, poi, si agita lo spettro della bioetica: in un tempo breve sottrarrà il potere femminile, smisurato e grandioso, di generare?
Provare a nominare ciò che i due sessi hanno di comune e di diverso nel legame con l’”altro” è dunque, oggi, un esercizio che esige molta cura. Non valgono i linguaggi eccessivi; i discorsi retorici. Anche perché è saltata la logica binaria maschile-femminile e la definizione dell’”altro” diventa sempre più difficile.
Così, le parole vanno scelte con attenzione. Un libro di racconti di Raymond Carver porta il titolo: Di cosa parliamo quando parliamo d’amore. Ecco, noi di cosa parliamo quando parliamo di procreazione, parentalità, utero in affitto, gestazione “conto terzi”, gravidanza su commissione, maternità surrogata?
A me sembra che il lavoro sia appena cominciato.