Affrontare oggi in modo sensato la discussione su temi come gender, maternità surrogata, nuove famiglie, nuove forme di genitorialità fa parte della sfida che la contemporaneità ci pone. In Italia non c’è confronto e la discussione pubblica soffre di contrapposizioni ideologiche, ripiegamenti auto consolatori, strategie egemoniche della parte cattolica e della Chiesa di Roma. E silenzi e opportunismi di ogni tipo.
Io penso che occorra rinnovare positivamente il nostro confronto con il presente, cercare chiavi di pensiero critico che ci aiutino a pensare in termini nuovi lo statuto dell’umano e i modi della soggettivazione individuale e inter relazionale, facendo i conti con la complessità del tempo presente, con le sconnessioni che hanno incrinato gli antichi paradigmi della cultura e della politica, e tentando nello stesso tempo nuove connessioni interpretative della realtà. Sappiamo che tardano a venire, per la velocità del cambiamento tecnologico, la potenza di indirizzo del tecno-capitalismo, la pervasività del sistema mediatico, e altro ancora, tra cui la faglia sempre più larga dell’incomunicabilità intergenerazionale. Ma occorre tentarci.
C’è un gigantesco divario da colmare tra le acquisizioni di nuove mappe identitarie del sé, di nuove modalità desideranti del rappresentarsi per come si è e per come ci si sente, di nuove stimoli e intrecci e mappe delle libertà individuali e dei diritti e, di contro, le vaste zone oscure che a tutto questo fanno da sfondo, contrasto, contrapposizione. E per zone oscure non va inteso soltanto il largo campo di opposizione conservatrice, spesso militante, che anima discussioni, mobilitazioni, prese di posizioni. Né il ruolo della Chiesa cattolica che su questo terreno si gioca oggi una partita storica, che gli ultimi papi hanno colto in tutta la sua dimensione simbolica, di senso e sociale, e di legittimazione di quel potere ex cathedra su cui si fondano ancora le ragioni stesse della Chiesa di Roma.
Pesa soprattutto l’assenza di un punto di vista culturalmente denso nell’approcciare le problematiche, di un apparato di pensiero all’altezza della complessità del cambiamento in atto. Come cogliere il passaggio che viviamo per quello che è, senza nostalgie di certezze ormai declinanti o obsolete? E come misurarci audacemente – come spesso le donne hanno saputo fare e fanno nei tornanti del cambiamento – con gli spostamenti e le dissoluzioni di senso che la contemporaneità comporta? E, ancora, come mettere in chiaro e farci i conti con le aporie che ci portiamo appresso dal patriarcato, di cui siamo state affossatrici, ma di cui siamo anche eredi? Qui stanno, a mio giudizio, le radici del modo come il tema della maternità si carica continuamente di richiami ancestrali, che prescindono dalla concreta esperienza di ogni donna e dai modi in cui la maternità si vive prevalentemente oggi, nell’epoca di generazioni di donne che non condividono più nulla o quasi di quello che era ancora il contesto antropologico, sociale e simbolico della modernità avanzata, il periodo di quel “in nome del Padre”, che il femminismo metteva radicalmente in discussione, salvando però – come non poteva non essere allora – l’unicità del corpo materno, l’unicità dell’esperienza materna, l’unicità di tutto ciò che a ciò avesse attinenza. Quello insomma che le biotecnologie hanno messo radicalmente in discussione e le nuove generazioni affrontano partendo dal loro mondo, che si fonda su un rapporto meno spiazzante con gli sconfinamenti pratici, sentimentali, psichici che le biotecnologie producono e che molto più facilmente che in passato le nuove generazioni sono in grado di rielaborare. E di utilizzare.
Anche per questo deficit di rapporto tra le generazioni la maternità surrogata oggi ci interroga a fondo, interroga tutti, pone a tutti i problemi del presente come il presente li pone: come si nasce, di chi sono i figli, come ci si districa con la legge, con la nuova tavola dei diritti, con le eventuali misure precauzionali da adottare. Insomma con ciò che oggi è materia viva che riguarda l’esperienza umana in contesti delle vite a noi vicine, dove è possibile scegliere e decidere a partire da sé, dalla disponibilità in proprio del proprio desiderio, del proprio corpo, dei propri piani di vita. E anche con ciò che rimanda a contesti dove il biomercato dei corpi, il biolavoro globale, la sperequazione crescente del valore dei corpi in rapporto a dove si viva regolano le vite: una dimensione dei problemi ancora quasi assente dal dibattito pubblico ma con una dimensione di svilimento delle vite che richiederebbe ben altra attenzione politica e ben altra attenzione critica.
Non c’è pratica del misurarsi liberamente con lo scombussolamento che tutto questo comporta su molti terreni. Ne fa parte anche il modo riduzionistico con cui in Italia per lo più si è affrontato il confronto con i fanatici dell’antigender. L’approccio rassicurante del voler sostenere che non di teoria – per quanto riguarda il gender/genere – si tratta e tantomeno di ideologia come se l’ideologia fosse una gradazione in più della teoria. E’ la teoria, pur essa come l’ideologia, fosse qualcosa in sé di esecrabile. Approccio di genere. Teoria del gender. Rassicurante la prima che parla della pedagogia contro gli stereotipi. Spiazzante, da panico eterosessuale,la seconda che è poi la vera pietra dello scandalo.
E’ terreno di conflitto in Italia ma anche in Francia, e altrove in occidente. La dura contrapposizione ai corsi scolastici sugli stereotipi del maschile e del femminile, a cui in molte scuole italiane si sta dando vita e che dura ormai da qualche tempo e contro cui si è scatenata la campagna gender-fobica, è soltanto il proseguimento in chiave contemporanea della tradizionale campagna contro l’autodeterminazione delle donne? Che cosa c’è di più dietro l’aggressività ideologica per quello che viene considerato l’effetto di questi corsi, cioè l’indistinzione dei ruoli e il fatale scompaginamento che ne deriverebbe tra conformazione sessuata dei corpi, ruoli sociali, orientamento sessuale, che devono stare invece strettamente insieme altrimenti precipitiamo, secondo l’ortodossia del codice sessuale binario, nell’androginia indifferenziata? E che cosa, soprattutto, per quel che ci riguarda, c’è nel dibattito molto sfuggente dell’altra parte, dietro alla cautela rassicurante che viene espressa sui corsi di decostruzione degli stereotipi, quasi che si trattasse di un innocuo gioco dei ruoli che gente arcaica mette in discussione non capendo nulla del politically correct? Noi vediamo un luminoso sforzo di civilizzazione fin da piccoli dei rapporti tra differenze e diversità. Altri ci vedono la fatale fine delle certezze del mondo.
Papa Bergoglio, per molti versi così aperto al mondo contemporaneo, intervenendo nel dibattito, nei giorni del Family Day, ha parlato senza messi termini. La cultura moderna e contemporanea, ha detto, “ha aperto nuovi spazi, nuove libertà e nuove profondità per l’arricchimento della comprensione della differenza. Ma ha introdotto anche molti dubbi e molto scetticismo. Per esempio, io mi domando, se la cosiddetta teoria del gender non sia anche espressione di una frustrazione e di una rassegnazione, che mira a cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa. Eh, rischiamo di fare un passo indietro. La rimozione della differenza, infatti, è il problema, non la soluzione».
E Joseph Ratzinger, nel suo discorso del 21 dicembre del 2012 , andava giù come una lama, individuando attorno al lemma “gender” l’emersione di una «filosofia della sessualità» mirante alla sovversione dell’ordine simbolico e sociale. E i compilatori del Lexicon curato dal Pontificio consiglio per la Famiglia, ravvisavano nel «femminismo radicale» di Judith Butler e, in particolare, nella sua opera Gender Trouble, un «nuovo attentato all’umanità». Forse fraintendevano, potrebbe dire qualcuno, o forse, molto semplicemente, mettevano in chiaro un altro ordine del discorso. Che è la materia della disputa, ma anche la materia del mutamento antropologico che viviamo, la materia del panico eterosessuale che anima la mobilitazione e la presa di parola di molti. In discussione è l’incipit stesso delle cose umane, quello che dà il senso alle cose, implementa gli apparati simbolici e le implicazioni esistenziali ed esperienziali – essere madre, essere padre – la legittimità dell’ ordine sociale, la performance del vivere ex natura. Perché l’incipit sta nell’ex ante per natura del codice sessuale binario – differenza maschile e differenza femminile e filiera conseguente di tutto.
Fare e disfare il genere, oggi. Essere e non essere un genere nel passato, che fu affollato della feroce reiezione delle diversità, delle “anomalie”, delle sconnessioni rispetto alla legge ex natura, l’unica ordinatrice dell’ordine sociale sull’incandescente materia dei corpi e delle loro stare al mondo. Talvolta qualche tolleranza dei re verso quelle “anomalie” ma sempre il non licet dell’assimilabilità umana di chi fosse segnato dallo stigma di una diversità non compatibile. Oggi, la critica e la militanza antiomofobica hanno fatto irruzione sulla scena pubblica permettendo ai soggetti singoli e ai movimenti ma anche a lobbies e gruppi di pressione e altro, trans, intersex, queer di rappresentarsi, dirsi, rivendicare, fare ordine del discorso. Un passo verso l’allargamento della tavola dei diritti – il mantra dell’epoca che viviamo – o un allargamento di quello che siamo, possiamo essere?
Come si possano pensare nuove pratiche relazionali, una nuova politica, di fronte alle trasformazioni in atto, attrezzandosi a sfuggire agli inganni della nostalgia conservatrice e, insieme,ai richiami dell’euforia neoliberale: qui sta un punto e non è certo di facile soluzione.