Mi ha presa per il braccio; sono stato trascinato verso la porta; ci siamo rannicchiate sotto al tavolo.
Dovremmo tenerli a mente questi gesti così fisici, così carnali di chi, la notte del 13 novembre 2015, si è preso cura dell’amico, della cugina, dell’americano che era lì al Bataclan ad ascoltare gli Eagles Of Death Metal.
Gesti che si trasformano in parola pubblica. Come la lettera di Antoine Leiris “Non avrete il mio odio”; come la vita di Valeria Solesin. Raccontano pezzi di una generazione che non è poi così individualista, così competitiva, così indifferente agli altri quanto si vorrebbe far credere ma che si prende cura delle relazioni.
E’ niente questa risposta rispetto a chi “Sembravano dei robot” ricarica il fucile AK-47 e spara con calma sui ragazzi assiepati sotto il palco del teatro, sui clienti seduti del “Petit Cambodge”, sulla terrazza della pizzeria “Casa nostra”?
Niente rispetto alla retorica bellica della “Francia è in guerra”? Annuncio dato dal premier Hollande davanti alle Camere riunite, avvalorato dai bombardamenti su Raqqa, roccaforte di Daesh.
Avrà una sua maggiore efficacia il “metodo” del presidente comandante in capo?
Non sembra se guardiamo le migliaia di persone che fuggono dalla Siria. Temono certo le bombe degli americani, dei russi, dei turchi, dei francesi ma affrontano viaggi terribili a rischio della propria vita perché temono altrettanto le bandiere nere del “Califfato”. Peraltro, i governi che hanno deciso i bombardamenti, ripetendo un errore già verificatosi in Iraq o in Libia, non hanno in testa nessun disegno per il “dopo” di quei paesi. (Perché non si concentrano intanto nello stroncare tutti gli aiuti che al “Califfo” arrivano dagli stati “alleati” del Golfo e – più o meno illegalmente – anche da qualche “amico” della Nato? Perchè non smettono di vendere armi che notoriamente finiscono a Daesh?)
E in Europa: non è facile riuscire a colpire un avversario senza volto per il quale il taglio delle teste, la scenografia lugubre da “snuff movie” (Paul B. Preciados), il massacro, la strage, rappresentano il mezzo privilegiato per gelare i cuori, per impossessarsi con il terrore dei nostri pensieri.
Naturalmente, la promessa della guerra e della lotta “senza pietà” (sempre Hollande, ora spalleggiato da Putin, e in modi diversi dagli europei e da Obama) contro i terroristi ci offre una sponda. Ci garantisce l’immagine di uno Stato protettore di persone, di cose; custode della sicurezza. Va da sé che accettiamo di cedere, in cambio, alcune delle nostre libertà: insomma, siamo tutti un po’ hobbesiani?
Comunque, possiamo sperare nel buon funzionamento della polizia, nella condivisione di informazioni, nei controlli alle frontiere. Benché le frontiere-colabrodo, i quartieri come Molenbeek ad alto tasso terrorismo, i diciannove borgomastri di Bruxelles che non vedono la crescita del jihadismo nei territori da loro amministrati, non promettono soluzioni rapide e definitive.
E poi, quelli che danno (e si danno) la morte, non attribuiscono importanza alla vita, ai rapporti. L’unica certezza per loro consiste nel passaggio all’atto brutale, totalitario, alla violenza.
Allora, quali difese ha chi va ad ascoltare musica in un teatro parigino, chi sale su un autobus londinese, chi prende un treno nella madrilena stazione di Atocha, a meno che non si asserragli in casa?
“Signore, disarmali! E disarmaci” fu la frase pronunciata dai monaci trappisti di Tibhirine, massacrati in Algeria. Per noi che non abbiamo indossato la veste dei monaci e delle monache, si tratta di continuare il lavoro con gli altri. Mettendo al centro la vita e le relazioni. Come è successo la notte del tredici a Parigi.