Pubblicato il 3 novembre 2015 sul manifesto –
Stando all’etimologia latina – avere cuore, amore, per la povertà – la parola misericordia sembra suggerire un significato semplice. Magari riassunto nel gesto che ci capita spesso di fare (o di rifiutare, in questo caso procurandoci qualche senso di colpa) quando offriamo una moneta a chi ce la chiede per la strada. O nell’emozione che proviamo compatendo (soffrendo insieme a) chi sta peggio di noi.
In realtà il senso della parola è molto più ricco. Mi sembra un buon esercizio – non solo per chi sta a Roma e nutre convinzioni cattoliche – leggere e meditare la Bolla papale che ha indetto l’imminente Giubileo straordinario della misericordia. Francesco afferma che in questa parola si può trovare la sintesi dell’intero “mistero della fede cristiana”, e che essa rappresenta “la legge fondamentale che abita nel cuore di ogni persona quando guarda con occhi sinceri il fratello che incontra nel cammino della vita. Misericordia: è la via che unisce Dio e l’uomo, perché apre il cuore alla speranza di essere amati per sempre nonostante il limite del nostro peccato”.
Più avanti il termine è declinato con i concetti e gli atti del perdono e della giustizia, è legato all’urgenza di riattualizzare il messaggio del Concilio Vaticano II, alla condanna più dura delle illusioni legate al denaro e alla ricchezza (“terribile trappola”), e del peccato della corruzione (“piaga putrefatta della società”). Ed è considerato decisivo strumento di mediazione e incontro con l’ebraismo e l’islam, religioni che condividono la centralità del suo significato.
Mi sono chiesto: qual è, se esiste, il corrispettivo di questo ampio e profondo senso della misericordia per noi laici, poco o per nulla credenti, e persino di sinistra?
Di fronte al modo in cui la politica laica ha affrontato e sta affrontando a Roma il tema proposto dal Giubileo resto, per così dire, stupefatto. Da un lato un gioco al massacro che fa venire in mente quella divina frase: perdona loro perché non sanno quello che fanno. Oppure il detto che ho sentito ripetere da Massimo D’Alema quando era in vena di battute sarcastiche: Dio rende stolti coloro che vuol perdere. E confesso che tendo ad accomunare in questa reazione di stupore non molto misericordioso tanto il sindaco Marino quanto i suoi vari “accoltellatori”. Bisogna poi dire che pure la Curia romana e lo stesso Papa si sono impicciati della faccenda dell’amministrazione della città (terrena ancorché eterna) in modo assai sconveniente.
Dall’altro lato – quello del governo nazionale – si afferma la logica e il linguaggio di un autoritarismo efficientista che sembra ridurre ogni problema al commissariamento di tutto il commissariabile, con annessi dream-teams. Una terminologia da Crozza-Briatore, con i suoi sciogni al top.
Nessuna misericordia e nessuna speranza, allora, per la città e – se esistono da qualche parte – i suoi buoni sentimenti?
Da genovese da lungo tempo romanizzato simpatizzo istintivamente col fatalismo cinico ma gioviale che mi circonda. È come se persistesse un genio del luogo così carico di storia e di bellezza, e anche di violenza, da essere forse immune a epifenomeni quali le carrozze funebri dei Casamonica, gli sbarchi dei marziani e dei prefetti meneghini. Forse mi illudo. A volte faccio la fantasia che sorga improvvisamente un partito di uomini e donne di buona volontà, che prenda sul serio il significato più ricco della parola misericordia, e che provi a viverlo e condividerlo di fronte alle splendide chiese barocche come tra i casermoni grigi delle periferie. Senza curarsi troppo di chi sta in Campidoglio. E se necessario persino di cosa dice il Papa.