Pubblicato sul manifesto il 29 settembre 2015 –
Mi è capitato, anni fa, di scrivere sul libro autobiografico di Pietro Ingrao Volevo la luna (Einaudi), azzardando la tesi che se il vecchio Pci era attraversato da una differenza positiva – rispetto agli altri partiti comunisti nel mondo, e rispetto alla stessa politica italiana – questa differenza era incarnata principalmente da un uomo come Ingrao.
E non solo per essere stato lui il primo a rivendicare un diritto al dissenso, pur rimanendo sempre obbediente alla disciplina del partito. Ma per aver testimoniato continuamente, lungo tutta la sua storia politica, l’ansia di una ricerca aperta sulla realtà, sempre spinta dalla passione per la giustizia, per la libertà di chi subisce l’oppressione del potere, e per il dubbio.
Il suo nome, Pietro, e il suo volto, il suo corpo, parlavano di questa formidabile energia, mai spenta dagli errori politici che pure il dirigente comunista Ingrao ha commesso, e che è stato molto più disposto di altri a riconoscere.
Sto leggendo o rileggendo i suoi scritti nel recente volume Coniugare al presente (Ediesse), dove Maria Luisa Boccia e Alberto Olivetti hanno raccolto interventi, interviste e appunti tra l’89 e il ‘93. Gli anni del crollo del muro, della fine del Pci, e anche della scelta di Ingrao di abbandonare il Pds, dopo quel primo periodo dopo la svolta vissuto, come disse, nel gorgo della trasformazione traumatica del suo partito.
Segnalo due di queste testimonianze. La prima è un dialogo tra Ingrao e Alex Langer, pubblicato nel ’90 da “Nuova ecologia”. Il leader ambientalista valutava positivamente, ma non in modo acritico, la svolta di Occhetto, e si rammaricava che un uomo “con l’autorità della storia politica e della figura morale” di Ingrao non si fosse messo “alla testa di questo possibile cambiamento”. Langer vedeva bene come molti che stavano con il “Sì” di Occhetto intendessero la svolta quale “omologazione, come la rimozione di un ostacolo per entrare nei salotti buoni”. E vedeva anche nello schieramento del “No” molte “persone più impegnate a difendere il diritto all’identità che a incidere politicamente”.
Ingrao risponde di non credere a un “atto salvifico”: un vero “rinnovamento radicale del Pci” presupponeva una ben diversa analisi del passaggio storico che stava vivendo il mondo e delle forze in campo. E il comunismo, come orizzonte, come punto di vista critico – non certo il regime fallito a Est – “permette di leggere molto meglio i fenomeni attuali”.
Allora io ero sulla posizione di Langer. Oggi penso che sbagliavo valutazione sulla svolta. Ma soprattutto mi sembra che le opinioni, le passioni e le inquietudini di persone come Langer e Ingrao valessero molto di più del loro schierarsi per il “Sì” o per il “No” nel confronto aperto nel Pci. E che abbiano molto da dire ancora oggi.
Come attuali sono gli appunti di Ingrao sul tema: “Può la poesia cambiare il mondo?” Ne aveva discusso con Adriana Zarri e Ernesto Cardenal all’Eremo di Monte Giove, nel giugno del ’91. La trascrizione di una scaletta manoscritta mima in un certo modo la scrittura in versi. Con frasi in lettere maiuscole, parole in corsivo. Una specie di partitura. In cui, dopo la citazione dell’Infinito di Leopardi, si può leggere: “e questo cambia / o meglio dilata il significato / delle parole / SCOPRE / SCOPRE / qualcosa/ che si può dire rappresentare/ solo dentro/ quella tonalità musicale/ quindi LEGGE/in un altro modo/ – secondo me molto più ricco – / la vita, l’esperienza vitale”.
La poesia non può cambiare il mondo? Ma senza una radicale operazione sul linguaggio, sul simbolico, non si farà una politica capace di cambiarlo.