Pubblicato sul manifesto l’11 agosto 2015 –
A scuola abbiamo apprezzato l’imperativo di Ulisse: fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza.
I Radicali hanno meritoriamente lanciato una campagna internazionale per il “diritto alla conoscenza” (su Radio Radicale i materiali della conferenza tenuta alla Camera il 27 luglio scorso). I cittadini hanno il diritto di sapere che cosa decidono e fanno i governi, specialmente in una fase (che dura dall’11 settembre 2001) in cui l’emergenza del terrorismo ha giustificato inaccettabili limitazioni allo stato di diritto. E giustamente si parla di una “transizione allo stato di diritto” contestuale in Occidente e nel mondo arabo e musulmano, come in ogni altra parte del mondo.
Infatti è ipocrita ergersi a giudici severi delle prevaricazioni del potere in casa altrui, quando anche le nostre carte democratiche sono tutt’altro che in regola.
Ma la parola conoscenza, naturalmente vuol dire molto di più della trasparenza dello stato. Ognuno può considerare un suo diritto accedere agli strumenti per capire in che mondo vive e come regolare la sua vita. Per fare scelte politiche. Ma anche per godere di un’opera d’arte. Per arricchire la propria capacità creativa.
Qui nel discorso pubblico si abbonda in retorica, in cattiva retorica. La “buona” scuola, la Rai “liberata dai partiti” (?!), la “Grande bellezza” italica, ecc… Con singolari tic, anche da parte di chi questa retorica non condivide. Intanto, uno strano rimpianto del passato. Di un’epoca in cui c’era forse una conoscenza maggiore delle cose?
Sul manifesto Franco Berardi Bifo, commentando la scomparsa di Renato Zangheri (un uomo a cui certo la conoscenza non mancava), osserva che gli avversari del Pci degli anni ’70 almeno avevano un pensiero.
Ernesto Galli della Loggia sul Corriere si chiede se Renzi sa di cosa parla quando parla del Sud, se conosce la situazione che dovrebbe governare. Un interrogativo giusto: sacrosanto il diritto alla conoscenza, ma non meno importante il dovere della conoscenza, specie per chi governa, insegna, fa informazione. Ci si potrebbe chiedere se anche il commentatore del Corriere, sa di che parla quando rimpiange uno stato unitario italiano incarnato indifferentemente da Mussolini, De Gasperi e Togliatti…
Molti poi vorrebbero replicare lo spirito e il successo delle lezioni televisive del maestro Manzi. Me lo ricordo con simpatia anch’io (soprattutto per la sua abilità col carboncino), e ricordo quanto lo amava mia nonna (che pure diceva di essersi letta “tutto il Dante” da giovinetta).
Mi viene però il sospetto che dietro tanta nostalgia si rischi di dimenticare che il “progetto pedagogico” della Rai di Bernabei e di quel sistema politico andava forse bene in un paese ancora afflitto da forte analfabetismo, dove spesso i cittadini della Repubblica faticavano a capire e parlare l’italiano. Ancor peggio, quella citazione mi sembra un lapsus: dobbiamo reinventare il modo di formare il popolo, di erudire il pupo.
E se proprio il pupo oggi avesse da insegnare qualcosa? E non solo perché è più colto e dimostra voglia di autonomia (per esempio non andando a votare). Penso all’altra grande emergenza che provoca gli istinti politici peggiori, l’immigrazione. Quasi nessuno riflette sul fatto che chi viene qui da culture lontane per migliorare la propria vita ha un bagaglio di conoscenze che ci sono ignote. E che potrebbero arricchirci, persino migliorarci. Va bene: chi desidera essere cittadino italiano deve frequentare per un certo periodo la nostra scuola. Anche noi, però, dovremmo trovare il modo di frequentare la sua.