Pubblicato sul manifesto del 9 giugno 2015 –
di Alberto Leiss –
Sul Corriere della sera di lunedì 8 giugno Sergio Rizzo pronuncia il suo de profundis sulle Regioni italiane. Un crisi profonda – scrive – “per certi versi irreversibile”. Ha naturalmente molte ragioni: inefficienze, sprechi, malcostume emerso clamorosamente con le cosiddette “spese pazze” dei consiglieri regionali. Tuttavia gettare tutta la croce del malfunzionamento dello stato sulle istituzioni che nel ’70, con notevole ritardo, dovevano attuare la correzione costituzionale allo storico centralismo italiano, può essere un errore. Tra l’altro, a dar retta alle rilevazioni sulla “fiducia” dei cittadini, ancora nel 2014 il calo delle Regioni (al 19% rispetto al 33 del 2010) le tiene ben al di sopra dei sindacati (tutti), delle banche, del Parlamento e dei partiti…
Per un quindicennio, fino al 31 maggio, ho lavorato per la comunicazione di un Comune importante, Genova, e dal 2007 per la Regione Liguria. Un’ esperienza su cui cercherò di ragionare in modo più approfondito.
Non ho dubbi, però, che l’ordinamento dello stato ha bisogno di un profondo ripensamento. Le riforme istituzionali di cui tanto si parla, dopo decenni di ritardi e fallimenti, vanno – almeno a parole – in una direzione che potrebbe essere giusta: superamento del bicameralismo perfetto e trasformazione del Senato in una Camera delle autonomie, riforma (della riforma malfatta) del titolo V, eliminazione delle Province, creazione delle Città Metropolitane e ruolo dei Comuni anche in nuove forme associate.
Naturalmente il diavolo si annida nei dettagli, al punto che tanta parte della sinistra (e ora anche la destra che aveva approvato) giudica “autoritario” l’esito della somma tra la nuova legge elettorale (Italicum) e la riforma del Senato. Certo andrebbero introdotte maggiori garanzie contro il rischio di uno strapotere dell’esecutivo e della maggioranza: ma non si dovrebbe smarrire l’obiettivo di dare un nuovo senso al rapporto fondamentale tra politiche nazionali e ruolo della ricchissima articolazione territoriale italiana.
Tante chiacchiere sul “federalismo” hanno rimosso il fatto storico che l’Italia locale che conta è quella delle “cento città” e delle migliaia di Comuni che anche nella dimensione più piccola sono il vero principale centro di riferimento, non solo amministrativo, ma anche identitario, per i cittadini. Dunque un governo nazionale che agisce nel concerto europeo, e la vitalità delle città e dei paesi. In questa duplice polarità le Regioni potrebbero assolvere – se profondamente riformate – a un indispensabile ruolo di programmazione e di coordinamento delle vitalità – e delle difficoltà – locali, in una dimensione sovracomunale. E con uno “sguardo” capace di legare anche le più piccole comunità alla imprescindibile dimensione europea e globale.
Del resto – oltre alla partita fondamentale della sanità (e anche qui non tutto è fallimentare, anzi) – le Regioni gestiscono soprattutto i finanziamenti europei.
Bisognerebbe che lo stato – e i partiti se ritrovassero un senso al proprio ruolo – fossero capaci di una analisi puntuale dell’operato delle singole Regioni, distinguendo il grano dal loglio. E puntando a un superamento – qui ha ragione Rizzo – delle Regioni a statuto speciale e alla individuazione di aree macroregionali.
Rizzo non parla della scandalosa posizione sui migranti di Maroni, Zaia e Toti. Questo mi sembra il modo peggiore di interpretare un ruolo regionale. E forse dovrebbe suggerire qualcosa a chi insiste nel dire che l’intero quadro politico da Renzi a Berlusconi e Salvini è riassumibile in “due destre”.
Alberto Leiss