Questo articolo comparirà sul numero di giugno (n.6) della rivista Mondo Operaio, insieme al testo di Maricla Boggio e a un intervento di Pia Locatelli, deputata socialista.
Questa legge “ha fallito. Non è coraggioso fare finta di niente” (Pierpaolo Vargiu, deputato di Scelta Civica). E Maria Spilabotte, senatrice Pd: E’ arrivato il tempo di porre rimedio alle sue “gravi contraddizioni”. Dunque, siamo alla rottamazione della Merlin?
Un fronte bipartisan di settanta parlamentari, primi firmatari, appunto, Spilabotte e Vargiu, vuole regolamentare la prostituzione abrogando una norma tra le più longeve del parlamento italiano: la Merlin, appunto, dal nome della senatrice socialista, veneta, Angelina, detta Lina.
La legge n. 75 venne approvata il 20 febbraio 1958, dopo un dibattito infuocato, durato dieci anni. D’altronde, era in gioco un potere terribilmente oppressivo. “La degradazione imposta a loro è un disonore per tutte” affermava la senatrice.
Il risultato fu di sottrarre quelle donne “rinchiuse” al dominio dello Stato. Non solo. La legge trasformò il modo di pensare dell’Italia nonostante i vaticini delle forze politiche moderate che prevedevano una catastrofica espansione delle malattie veneree. E nonostante l’accusa della sinistra che “difendeva” gli interessi dei poveri (maschi) i quali avrebbero dovuto rinunciare ai prezzi fino ad allora controllati dallo Stato.
In effetti, lo Stato succhiava profitto dal corpo femminile attraverso la tassa che i tenutari delle “case chiuse” gli pagavano. Nel testo di Maricla Boggio (qui riproposto), grazie a un montaggio intelligente, possiamo seguire non solo lo svolgersi del dibattito parlamentare, costellato di accuse e recriminazioni assurde, ma anche la descrizione della vita di “Cesena”, “Catania”, “Bologna”, che prendevano a prestito il nome del paese d’origine.
Era una condizione infame, la loro. Lina Merlin assieme a Carla Voltolina, moglie di Sandro Pertini, la raccontarono in un libro: Lettere dalle case chiuse. “Qui manca tutto, persino l’acqua. Lavoriamo dalle dieci di mattina all’una di notte senza interruzione”. Cento coiti al giorno e uno sfruttatore da mantenere. “Alla ragazza resta solo il 15 % degli incassi, tutto il resto se lo mangiano i padroni, i servizi, le mance, le visite mediche”.
Con la legge del febbraio ‘58 sarà punito lo sfruttamento, sia economico sia attuato con violenza, il favoreggiamento, il reclutamento e l’induzione alla prostituzione. Si trattava di difendere “quattromila esseri umani tenuti in stato di abominazione”.
Lina Merlin però non aveva in mente di eliminare la prostituzione, di azzerare lo scambio di prestazioni sessuali per denaro. Spiegò Riccardo Lombardi: “Noi non nutriamo alcuna illusione che l’approvazione di questa legge rappresenterà un capovolgimento dell’attuale costume. Il costume morale di una nazione non si modifica attraverso le leggi”.
Vero. Ma sarebbero state necessarie maggiori tutele per chi si prostituiva. Il risultato invece fu una attività consentita, quasi impossibile da esercitare nella legalità. “Ovunque permessa e ovunque vietata” scriverà Roberta Tatafiore in Sesso al lavoro (Il Saggiatore 1994, ripubblicato nel 2012 con introduzione di Bia Sarasini).
Difendere non bastava. Occorreva attribuire uno statuto, una dignità, dei diritti umani e civili. Dunque, il riconoscimento di una autonomia di scelta. Come era possibile “scegliere” di prostituirsi dal momento che la prostituzione faceva (e fa) problema?
Nell’immaginario collettivo i soggetti dello scambio sesso-denaro assunsero la fisionomia delle vittime traviate e travolte. Innocenti per definizione giacché le vittime il male lo subiscono. Lo sopportano. Sono da commiserare.
Il giudizio non si è spostato granché, dai tempi della Merlin. Perciò, riprendere in mano quella legge non ha nulla di scandaloso. I problemi arrivano con la nuova regolamentazione nel ddl bipartisan per “disincentivare” la prostituzione nei luoghi pubblici; depenalizzare l’adescamento nei “luoghi propri”. Accertare che l’esercizio della prostituzione avvenga “per scelta”. “Bisogna distinguere tra chi decide più o meno liberamente di prostituirsi dalle ragazze spesso minorenni e dalle donne che vengono fatte arrivare in Italia con l’inganno e la forza, sequestrate e tenute in schiavitù”. Si pensa al rilascio di una autorizzazione a svolgere quella professione con una comunicazione presso le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura. Costo semestrale dell’autorizzazione 6000 euro per attività full-time e 3000 per il part-time, specificando i tre giorni alla settimana durante i quali ci si prostituisce. Inoltre: trasparenza fiscale; obbligo per i clienti a utilizzare il preservativo; gestione del mercato del sesso in strada attraverso dispositivi di zoning, da attivare con le amministrazioni municipali; contrasto della tratta e dello sfruttamento sessuale.
Sorgono spontanee alcune domande: quali modalità dovrà seguire chi si prostituisce così da certificare di svolgere “per scelta” quell’esercizio? Quanto alla comunicazione alle camere di commercio, dunque in questura, non vi sembra che manifesti la volontà dello Stato a “sorvegliare e punire” con un controllo occhiuto? In merito alla possibilità di far pagare l’autorizzazione, non mi pare semplice, data la flessibilità del mercato e l’intermittenza con la quale molt@ si prostituiscono. Inoltre, sulla trasparenza fiscale: si applicherà l’Iva al lavoro sessuale? Infine, non riesco a immaginare i mezzi attraverso i quali scoprire l’effettivo utilizzo del profilattico.
D’altra parte, i sindaci incalzano e le amministrazioni municipali si lamentano. Devono rispondere a proprietari di appartamenti furiosi per il chiasso notturno, sgommate, liti, mercanteggiamenti, sportelli delle auto sbattuti. Dove sta “la tutela della pubblica decenza” e “della pubblica quiete”? Che ne è del “decoro urbano”?
A me pare che il disegno di legge, cercando di adeguarsi a un’ottica di “riduzione del danno”, provi a rattoppare soprattutto gli sbreghi di una situazione dovuta alla crescita della prostituzione di strada. Di qui la proposta di istituire quartieri a luci rosse.
Carla Corso, presidente del Comitato per i Diritti delle Prostitute, ha detto che se “è importante regolare, ci vuole una legislazione leggera, altrimenti rischiamo una doppia criminalizzazione, soprattutto le migranti: oltre che non in regola con i documenti di soggiorno potrebbero trovarsi non in regola con la legge sulla prostituzione. Una situazione di diffusa illegalità non farebbe che aumentare la nostra vulnerabilità”.
Quanto al contesto mutato e alla trasformazione del mercato sessuale, rimanda alla globalizzazione, alla crisi che ha inciso sui comportamenti, alla presenza dell’Aids che agita la sua falce mortifera. L’idra della tratta e dello sfruttamento del mercato criminale ha allargato il giro d’affari, rafforzato dagli infiniti modi in cui, nelle relazioni, si declina la sessualità. E le relazioni. Giacché anche queste, tra chi si vende e chi compra, sono relazioni, pur mediate dal denaro e svolte spesso in condizioni aberranti.
Ma se le condizioni sono aberranti – domanda qualcuno – perché chi fugge dall’Est europeo, dall’Africa, non punta a un lavoro “normale”? Bisogna intendersi: sarà poi “normale” svuotare le padelle in clinica o lavare le scale di un ministero? D’altronde, nessuno si identifica completamente nel lavoro che svolge.
Veramente, il capitalismo, meglio, il neoliberismo ci lusinga con il suo ventaglio di possibilità mentre “la realtà è che qualsiasi scelta viene fatta in presenza di un numero limitato di alternative” (Wendy McElroy Le gambe della libertà Leonardo Facco Editore 2002).
Nonostante “il ventaglio limitato di alternative”, romene, ucraine, nigeriane, sudamericane probabilmente intravvedono una via di fuga dal marito-aguzzino, dalla comunità persecutoria, dalla fame, dalla guerra quando vengono a prostituirsi in Italia. Certo, sono ingannate, sequestrate e però, al fondo penso che abbiano una determinazione che ricorda quella dei migranti, capaci di attraversare i deserti, aspettare mesi sulle coste della Tripolitania, superare il cimitero marino del Mediterraneo perché “tutto è meglio di questo”.
Oggi sono più di trentamila (secondo alcune stime più di 40-50 mila) le persone (donne e uomini) coinvolte nella “Indegna schiavitù” (Rina Macrelli, Editori Riuniti, Roma, 1981). Camminano per le strade; ricevono nelle case. Pretty Woman organizzate negli appartamenti, call-girls, stelle del porno, escort, ragazze-immagine. Immigrate discriminate (costituiscono la grande parte della prostituzione) e cittadine integrate. La prostituzione maschile è un fenomeno in crescita nelle grandi città anche se è del 5 % la percentuale dei maschi (massaggiatori, accompagnatori, transessuali, viados) sul totale delle persone che si prostituiscono.
Arriviamo ai clienti: 2,5 milioni (seguendo i dati elaborati dal gruppo Abele di Torino). Altre stime oscillano tra i 6 e i 9 milioni che finanziano, e riproducono il commercio del sesso. Giuliano Amato aspirava a vedere le manette ai polsi dei clienti; Luciano Violante non faceva differenza “tra chi schiavizza le donne immigrate e chi le usa sessualmente”. Mettere fuori legge la domanda maschile non è semplice.
I clienti non sono tutti uguali. Benché un filo li tenga insieme: “Il diffuso bisogno maschile di sesso commerciale” (Maria Rosa Cutrufelli Il denaro in corpo Marco Tropea editore, 1996). Un bisogno che riguarda il fruitore timido, solitario, il marito (numeri in diminuzione) insoddisfatto, il fidanzato alla ricerca di una messinscena emotiva. Quello che teorizza piacere sessuale sganciato dall’affettività e dall’amore. L’aggressivo, il violento portato a umiliare per confermare la sua identità. Inoltre non mancano le donne, signore che coltivano i punti chat, i siti di incontri, mogli curiose, frequentatrici di club per scambisti.
Ecco. Sulla domanda, che è sociale e simbolica, di sesso commerciale da parte degli uomini, non si può scivolare. Qualche interrogativo dovrebbero porselo sulle responsabilità che hanno.
Nel femminismo ci si scontra pro e contro la prostituzione. Tra abolizioniste e libertarie. Due schieramenti, di quelle che considerano odiosa la mercificazione del corpo e sottolineano la violenza, l’aggressività, il senso di possesso maschile assieme alla derelizione, all’umiliazione femminile e quelle che sostengono la libertà di disporre del proprio corpo giacché il corpo non si vende; viene solo affittato (gli americani lo chiamano “rent dolls” o “boys”).
Andare oltre la Merlin, non sarà semplice. Nella sola Europa gli approcci legislativi legati al fenomeno della prostituzione hanno grandi differenze. In Germania, è regolamentata e soggetta a tassazione; in Romania viene criminalizzata la prostituta; in Svezia il cliente; in Irlanda il cliente e la prostituta.
Quanto all’Italia, da trent’anni il Comitato per i Diritti delle prostitute ripete: non trasformiamo chi svolge lavoro sessuale in cittadino/cittadina di serie C. Sulla legge in discussione in parlamento, Pia Covre, leader del Comitato, in un incontro organizzato assieme all’associazione (dei Radicali) Certi Diritti e al Codacons, ha ribadito che “anche il nostro è un lavoro e va riconosciuto”. Tuttavia, la prostituzione non è un lavoro come gli altri. Non si possono nascondere le strutture di potere che la contraddistinguono.
Ci ha provato l’ex premier Berlusconi a trasferire nel discorso pubblico una narrazione improntata alla libertà del mercato (Ida Dominijanni nel Trucco Ediesse 2014). Tuttavia, proprio Ruby (per via di quella “tipica furbizia orientale” di cui l’ha accusata il magistrato Ilda Bocassini?) o Patrizia D’Addario sono state in grado di usare a proprio vantaggio una simile narrazione, mostrando di voler salvaguardare i propri interessi.
Infine, ammettendo il debito di riconoscenza che abbiamo con Lina Merlin, l’occasione del ddl bipartisan potrebbe aiutare la riflessione su una materia incandescente come il legame tra sesso, legge e mercato.