di Monica Luongo
La fragilità di un padre è la mano delicata di una figlia giovane che lo aiuta a indossare un camice da ospedale. Poi c’è un uomo maturo che gestisce con fare calmo e certo la relazione con la madre morente e il dolore nevrotico della sorella, ma che decide in età matura di lasciare un lavoro sicuro perché non ce la fa più e non riesce a dire altro su questo. Alla compagnia si unisce un attore gigione che non riesce a non farsi amare, ma che dimentica tutte le battute da recitare sul set del suo film.
Mia madre di Nanni Moretti non mi ha colpito per la similitudine più volte già letta nelle recensioni tra Moretti stesso e Margherita Buy, quest’ultima vista come alter ego dell’altro; o anche per la relazione madre-figlia che mai fu e mai potrà essere una oasi di pace.
Moretti nel suo film allestisce una scena corale, pubblica, che ha un suo riscontro parallelo nella dimensione privatissima del dolore di una famiglia che sta perdendo ciò che ha di più caro. Ci sono infatti più corpi fisici e simbolici sul set. C’è il corpo biologico di una donna malata che si avvia alla sua fine: un corpo che i figli e la nipote toccano con confidenza, un corpo che la donna vede allo stesso tempo smettere progressivamente di funzionare e non vuole, combatte con le forze che le sono rimaste, fino alle ultime, commoventi ore passate in casa con la giovane nipote a studiare latino.
Nelle medesime ore c’è una figlia regista (Margherita Buy) che sta girando un film sulla fine del lavoro: è la storia di una fabbrica occupata e di un nuovo proprietario (Turturro) che con i sindacati non tratta. C’è un dunque il corpo sociale, quello del lavoro, che si è sfaldato e che si mostra in una realtà cruda fatta dei volti delle attrici e degli attori, da corpi “normali”, “quotidiani”: io mi sono riconosciuta in quelli, ma la regista no, continua a maltrattare i suoi collaboratori perché le comparse le sembrano finte, le donne hanno le labbra al silicone, gli uomini troppi tatuaggi. Ma le persone normali sono così, obietta il collega, e lei è smarrita, perché ha una idea di chi lavora in fabbrica che non tiene conto delle generazioni che sono venute dopo di lei e che nel mondo del lavoro sfaldato ci vivono e lottano.
Così Moretti, come sempre ha fatto, mischia corpo biologico, corpo sociale, e naturalmente corpo politico: come è ancora così difficile a molti capire che queste entità non sono disgiunte? Ed è proprio l’appartenenza al genere a mescolare i geni dei tre corpi, a disegnare differenze, comportamenti, relazioni reazioni.
Nel corpo di una madre, simbolo potente, Moretti guarda le carte che ha sul tavolo della sua vita. E’ un uomo triste, come potrebbe essere diversamente in questi tempi brevi e confusi? ma sa bene cosa vede.