di Monica Luongo
E’ stata in qualche modo una settimana santa. A Lahore lo scorso fine settimana c’è stata la festa più famosa della stagione primaverile, il Mela Chiraghan o Festa delle Luci, che celebra la morte del poeta sufi e santo Shah Hussain. La festa si tiene nel santuario a lui dedicato e nei bellissimi giardini Shalimar.
E’ chiamata festa delle luci perché le persone portano candele accese al santuario e illuminazioni vengono sistemate nel parco e lungo i canali. Il santuario si trova nella parte vecchia della città, vicoli intasati da bancarelle di venditori di cibo, collane di fiori e candele. Il santuario è lontano dalla nostra idea cristiana e architettonica, è piuttosto uno spazio aperto con una area chiusa dove c’è la tomba del santo (non accessibile, una grata la protegge) a cui le persone si avvicinano portando fiori e vestendo sciarpe dai colori sgargianti. Un grande fuoco viene acceso e intorno a esso si prega e si danza, si bruciano essenze di gelsomino. L’attrazione maggiore è data da uomini che non sono riuscita a ben definire e farmi spiegare: adepti, particolarmente devoti? Sono comunque lo spettacolo maggiore: hanno barbe lunghe e bianche le mani cariche di anelli preziosi e collane fatte di pietre e coralli, cavigliere di campanelli: Danzano, pregano e ovviamente posano per i fotografi che sono molti; sono anche sotto l’effetto di qualche droga, ne sono sicura.
In ogni caso l’atmosfera è di festa, ci sono i bambini, vecchie giostre di legno, e donne imbellite da un trucco importante.
Quello che vorrei cercare di spiegare è l’esperienza di essere stata l’unica straniera presente alla festa e che impatto ha avuto su di me, nel senso fisico più stretto della parola. Già perché domenica scorsa è stata anche la domenica delle palme, celebrata dalla minoranza cristiana in città. E poiché poco meno di due settimane fa un uomo bomba ne ha uccisi più di cinquanta in una chiesa in città, io ho deciso di andare alla messa. Consapevole del rischio, ho chiesto a un amico in polizia se fosse rischioso andare in un luogo sacro non musulmano: nessun problema, mi ha detto, dopo l’attentato le chiese sono presidiate e protette. Così il sabato, lo stesso giorno in cui sono stata al Mela Chiragan, ho deciso di fare un sopralluogo nella cattedrale cattolica di Lahore. Non è stato facile: la chiesa è in centro ma gli autisti di risciò non sanno dove sia e non sanno la differenza tra una chiesa cattolica o protestante (così come io non sarei capace di riconoscere una moschea sciita da una sunnita). Lascio il mezzo di trasporto precario e mi avvio a piedi. La famiglia dei guardiani della cattedrale protestante (costruzioni imponenti dalla tipica architettura coloniale inglese di mattoni rossi) – che vivono in una casa poverissima, i bambini scalzi, le donne che si pettinano l’un l’altra all’aperto – mi indicano finalmente dove è la chiesa che cerco. Intorno al muro di cinta non c’è nemmeno un’auto della polizia, all’interno un solo uomo della sicurezza privata mi fa entrare senza nemmeno guardare cosa c’è nella mia borsa. Mi dice che la chiesa è chiusa e apre solo per la funzione della domenica, ma allora dove posso pregare?, chiedo. Mi viene indicata una finta piccolissima grotta in giardino, sovrastata da una altrettanto piccola statua della madonna e qualche ciotola per le candele. Mi seggo a pensare (il mio amico Antonio, a cui dedico questo post, una volta mi ha detto che anche pensare è una forma di preghiera). Ora sono in un luogo sacro a me comunque familiare, nel pomeriggio sarò in un altro luogo sacro, a me del tutto estraneo.
E infatti, oltre al frastuono della festa, alla sovraesposizione di suoni, odori e corpi, è stato il mio corpo a essere al centro dell’attenzione. Ho abiti locali, la testa coperta, ma è evidente che sono una straniera: tutti mi guardano, troppo, molti uomini cercano di toccarmi, i signori con la barba mi piantano sul collo gli occhi segnati dal kajal. Mi sono abituata in qualche modo a questo genere di “attenzioni” ma in questo caso è davvero troppo, perché sento la curiosità degli altri che amplifica il senso di estraneità, mi sembra anche di disturbare il lavoro dell’amico fotografo che è qui per lavorare. Sono letteralmente un corpo estraneo e mi interrogo su come e quanto si possano vivere in maniera più distante esperienze di altre culture come questa. Quando vado via sono sollevata.
A messa il giorno dopo. Non c’è polizia nemmeno oggi, siamo circa duecento, pochi stranieri, la maggioranza dei pakistani cristiani preferisce la messa in urdu; tutto avviene la mattina presto per dare meno nell’occhio. La liturgia delle Palme è dedicata all’ora della luce e delle tenebre: “Io sono il pane della vita… Tutto ciò che il Padre mi dà verrà a me: colui che viene a me non lo respingerò… E questa è la volontà di colui che mi ha mandato, che io non perda nulla di quanto mi ha dato, ma lo risusciti l’ultimo giorno” (Gv. 6,35-39). E’ il giorno in cui Gesù entra a Gerusalemme ed è anche il tempo di Giuda e del Salmo 21: “Un branco di cani mi circonda, mi accerchia una banda di malfattori; hanno scavato le mie mani e i miei piedi. Posso contare tutte le mie ossa”. Mentre ascolto, penso alle luci e alle tenebre di questa vita da minoranza e piuttosto che venirmi in mente quella cristiana in Pakistan mi ricordo quando dieci anni fa nel quartiere romano del Pigneto (non ancora diventato alla moda) parcheggiavo l’auto e ai margini della strada vedevo una lunga fila di scarpe: capivo che c’era una stanza adibita a moschea, senza nessuna pretesa di grandezza, solo la necessità di essere comunità, anche se minore.
E mi sono sentita come quella fila di scarpe, solo che per fortuna da noi nessuno spara a chi prega.
Pubblicato anche su www.olimpiabineschi.it