Pubblicato sul manifesto il 14 aprile 2015 –
Qualche giorno fa ho visto finalmente una puntata della fiction americana House of Cards. Credo di essere capitato in un momento cruciale. Il cattivissimo presidente (Kevin Spacey) cerca di liquidare la sua avversaria nella competizione per il nuovo mandato offrendole un posto alla Corte Suprema, garantito a vita. Si vedono di nascosto in uno scantinato della Casa Bianca, ma lei risponde beffarda che non ci pensa neanche a rinunciare alla battaglia. Anzi rilancia crudelmente: se entro tre giorni non si ritira lui, lei renderà pubblico un diario segreto di sua moglie, di cui dice di essere in possesso, che parla di una vecchia vicenda privata. Data in pasto ai media manderà entrambi a gambe all’aria. Il presidente accusa il colpo ma ribatte rivolgendosi all’avversaria al maschile, dicendo più o meno: “Caro… vedo che ti sei deciso a entrare nel nostro club di uomini…”. E promette a sua volta sfracelli.
Tutto il racconto è giocato su una tela di relazioni tra donne e uomini – a cominciare dalla coppia presidenziale – che fanno politica sulla scena del potere e intrecciano sentimenti e contraddizioni etiche. I vissuti personali premono sulla gabbia della guerra della politica, ma non succede mai che il “personale” sia riconosciuto come “politico”. Semmai il “privato” rischia di essere continuamente impugnato per condizionare il “pubblico”.
Eppure – al di là di significativi e sofisticati prodotti dell’immaginario – l’ urgenza di riannodare una politica perduta a se stessa alle radici della vita reale delle persone sembra emergere anche ai massimi livelli del potere mondiale. Leggo sui giornali l’annuncio di Hillary Clinton: correrà per succedere a Obama. Sarà “il campione degli americani”, ma si presenta nei panni della nonna che insieme al marito ex presidente si prende cura della nipotina neonata; nel primo spot elettorale si avvicina alle famiglie di una middle class fatta anche di immigrati, molte donne, coppie omosessuali ecc. (ne ha scritto Federico Rampini su Repubblica).
Mi è poi capitato di partecipare a accesi confronti in due luoghi reali diversissimi della politica, per me molto importanti: la Camera del lavoro territoriale di Reggio Emilia e la Libreria delle donne di Milano. (Proverò a parlarne di più e meglio, con lo spazio necessario). Segnalo intanto che correva un interrogativo comune: donne e uomini possono fare politica e cambiare le cose inventando pratiche, relazioni e anche “istituzioni” diverse da quelle dominate dalle logiche del potere, così realisticamente estremizzate in House of Cards? Queste invenzioni possono parlare a tutti e tutte, indicando un nuovo orizzonte, una nuova dimensione universale in un mondo che finalmente vediamo sessuato? (Lo vediamo pure sulla scena politica italiana: le donne inserite nei livelli di governo, come fossero di per sé un valore in più. E questo ci fa anche vedere che questo non basta al cambiamento che desideriamo).
Possono incidere, per esempio, nel drammatico bisogno di rinnovamento che si avverte sempre di più all’interno di una realtà importante come quella della Cgil e del sindacato?
Gli ostacoli non mancano. Noi uomini siamo violenti, narcisi, irresponsabili. Incapaci di leggere e comunicare i sentimenti più intimi e veri. Ma le donne esitano. Oppure dicono: incontriamoci, ma alle nostre condizioni, sotto la nostra nuova legge. Valerie Solanas alla fine sparò al super-narciso Andy Warhol.
Un vicolo cieco? Il poeta ci consola: a volte è in fondo ai vicoli ciechi che si aprono le svolte. Eventi imprevisti. Ma anche altre vie che si scoprono, si costruiscono. Perché lo si desidera davvero.