Pubblicato sul manifesto del 7 aprile 2015 –
Il Papa ha parlato di “silenzio complice”, di chi ha potere nel mondo, ma anche di noi tutti, di fronte ai massacri che colpiscono sempre più spesso cristiani, persone colpevoli solo di credere in un dio diverso da quello dei loro assassini. O anche semplicemente di frequentare scuole che assomiglino al modo occidentale di fare cultura e formazione.
E’ giusto – almeno – non distogliere subito lo sguardo da quelle immagini che descrivono la strage compiuta all’università di Garissa in Kenya. Mi ha colpito il ragionamento, volutamente provocatorio, con cui Paolo Giordano, sul Corriere della sera di sabato, esortava a “rompere il nocciolo dell’apatia” provando a immaginare che tutti quei corpi di giovani uccisi avessero la “carnagione chiara, rosata, più simile alla nostra”, come se il massacro fosse avvenuto in una università europea.
Forse l’intenzione dell’autore è buona, ma a me è venuto da pensare l’esatto contrario: lo sforzo su noi stessi dovrebbe essere tale da produrre un sentimento, una reazione di tipo diverso da quello che proviamo quando sentiamo attaccato e ferito un “noi”. Dovremmo imparare a emozionarci e a reagire proprio per la violenza subita da un “altro da noi”.
La Chiesa cattolica, in genere e nelle sue espressioni migliori, pone attenzione a non isolare mai le persecuzioni subite dai cristiani da quelle che colpiscono altre religioni, altri popoli, altre identità, altri corpi.
Alberto Negri, sul Sole 24 ore di domenica, ha avvicinato il massacro di Garissa, a quello “già dimenticato, attuato nel dicembre scorso dai talebani pakistani di 144 studenti della scuola militare di Peshawar”, colpevoli solo di essere figli di soldati agli ordini di un governo che i Talebani combattono. E ha osservato come le vittime di questa violenza estrema, “che usa la religione come un marchio sono sia i cristiani che i musulmani, perché è in atto una profonda lacerazione nell’Islam che travolge un’intera civiltà”.
Nello stesso articolo si nota come le minoranze cristiane fossero molto più protette in Irak sotto il regime di Saddam Hussein (il cui vice Tarek Aziz, tra l’altro, era un cristiano caldeo): erano un milione e mezzo di persone e oggi – dopo anni di fughe, l’ultima di fronte all’Isis – ne sono rimaste circa 100 mila. Questo aspetto ci riporta alle responsabilità occidentali nella esplosione della crisi “che travolge un’intera civiltà”.
Il manifesto domenica scorsa ha aperto sulle tante “vie crucis” che affliggono il mondo, sottolineando soprattutto i dati che parlano di un milione e 300 mila vittime, in maggior parte civili, causate dalla “guerra al terrorismo” dichiarata da Bush dopo l’attacco alle twin towers. E Chomsky ha recentemente affermato che l’uso dei droni che fa l’amministrazione Obama per colpire i vertici e le milizie del terrorismo è “la più grande campagna terroristica globale che sia stata messa a punto”.
Ci si può chiedere – anche alla luce del recente preaccordo sul nucleare con l’Iran – se Obama non abbia cercato, e non stia continuando a cercare una via diversa da quella seguita dal suo predecessore, pur tra molti limiti, errori, e responsabilità gravi. Io propendo per il sì.
Quello che possiamo fare è non voltare la testa da un’altra parte, guardare a tutte le violenze di cui siamo testimoni cercando di comprendere le radici diverse di ogni diverso conflitto. Leggere le ragioni politiche e simboliche che producono sempre gerarchie diverse nell’”importanza” delle vittime: passaggio necessario per conquistare la vicinanza e la passione comune con ogni vita umana minacciata dalla violenza .