L’articolo è stato pubblicato nel numero 35 marzo-aprile 2015 della rivista Alternative per il Socialismo
La scena vede in primo piano un gruppo di ragazze, anzi un collettivo, come si diceva allora. Il Collettivo femminista di Lettere. Circa una ventina. Siamo all’università La Sapienza di Roma, la data non è precisa, nel ricordo. Dovrebbe essere il 1973, devo approfondire. È la seconda volta che si riuniscono, sono aumentate, sono molto contente. Si trovano nell’Aula VI, quella che nella Facoltà di Lettere e Filosofia per anni è stata a disposizione del movimento. La porta si apre, entrano alcuni compagni, tra i leader più noti del Collettivo di Lettere. Con loro ci sono anche delle compagne. Vogliono partecipare alla riunione, non capiscono e non accettano di essere esclusi, sono furenti. Parlano, parlano. Noi siamo decise, non li ascoltiamo. Alla fine se ne vanno. Non torneranno più. Le compagne, che non hanno aperto bocca, si presenteranno alla riunione successiva, da sole.
Italia, febbraio 2015, settimo anno della crisi più lunga mai sperimentata nella modernità, con effetti che investono con sempre maggiore violenza la vita delle persone. Nelle prove di costruzione di un nuovo soggetto politico che prima di tutto sappia proteggere chi paga le conseguenze della crisi, progetto che investe forze politiche, associazioni, movimenti – in modi diversi e con diverse posizioni – inquieta l’assenza del femminismo. Non che non ci siano femministe coinvolte. Ma l’assenza del femminismo, tagliato fuori dal gioco dello scambio tra culture politiche, va registrata con freddo realismo, senza accucciarsi in una retorica consolatoria. È un’assenza che si può leggere in una duplice angolatura. Come atto di esclusione, consapevole o meno non importa, da parte di chi partecipa a questi processi, e che ritiene auto-sufficiente la propria elaborazione. Oppure come auto-esclusione, risultato di una lunga pratica di separatismo. Dichiaro subito che ritengo vere entrambe le letture. Soprattutto, penso che il doppio movimento che viene generato dal sovrapporsi di esclusione e auto-esclusione dia un risultato specialmente nefasto. La sparizione dalla dinamica politica delle istanze critiche del femminismo è un danno grave, per tutto il movimento di ricerca alternativa. Il fatto che perlopiù ne manchi la consapevolezza, e che nei casi migliori – molto rari, sottolineo – il massimo di attenzione consista nel percepire che, in qualunque contesto, parterre interamente maschili sono impresentabili, fa parte del problema. Insomma, si tratta di riaprire il tormentato dossier delle relazioni tra femminismo e sinistra. Un dossier che attraversa le relazioni tra donne e uomini della sinistra. In carne e ossa.
Il corteo dei coetanei
Allora, gli anni settanta. Gli anni del fulgore del femminismo della seconda ondata. Il tempo trascorso non cancella la potenza dell’azione di cui il mio ricordo si fa testimone. Non fu un episodio singolo, fu ripetuto e declinato in mille diverse azioni in mille e differenti sedi politiche. Si mostrava l’inaudito. Le compagne si separavano dai loro compagni, dagli uomini della sinistra rivoluzionaria, come si diceva allora. Anzi. Ne mettevano in discussione strategie, interpretazioni della politica, la stessa visione di una società nuova da costruire. Il dominio degli uomini sulle donne, sostenevano, non può passare in secondo piano rispetto al dominio di classe. È del 1976 un illuminante saggio di Mariella Gramaglia, recentemente scomparsa. Un testo elaborato nel vivo degli avvenimenti, che ne offrì una lettura che fu subito raccolta, almeno dalle femministe, per la capacità di interpretare un passaggio cruciale, del femminismo e della politica italiana. Alcune date aiutano a capire. L’8 marzo 1976 a Roma c’era stata la più grande manifestazione di piazza del femminismo italiano, quella che lanciò, tra gli altri, lo slogan: tremate, tremate le streghe sono tornate. Era stata preceduta da una manifestazione quasi altrettanto imponente, nel dicembre 1975, in cui si era consumato un fatto inedito: le organizzazioni politiche della nuova sinistra, in special modo Lotta Continua, avevano tentato di infrangere il rigoroso separatismo del corteo femminista, che aveva resistito proteggendosi con cordoni di servizio d’ordine. Una rottura che si era consumata anche nelle organizzazioni: nella commissione femminile del Pdup- Manifesto, per esempio, e nel congresso che decretò la chiusura di Lotta Continua, nel novembre del 1976, di cui le critiche delle femministe furono una parte decisiva. Insomma, fu allora che le ragazze, le donne cresciute nei movimenti, se ne andarono, lasciando la “politica rivoluzionaria”. Mariella Gramaglia – il saggio si intitola “Il venir dopo e l’andar e oltre del movimento femminista” e fu pubblicato in “Problemi del socialismo” (numero 4, quinta serie, anno XVII, p1gine 179/201), la rivista diretta da Lelio Basso – si rivolge proprio ai “rivoluzionari”, cioè agli uomini, ai coetanei che in quella prospettiva si collocano. Il testo è scritto dopo il 20 giugno, cioè dopo le elezioni politiche, in cui le varie sigle della sinistra extra-parlamentare riunite in Democrazia Proletaria, avevano raccolto alla Camera 557.000 voti, pari al l’,52%, e con la legge elettorale allora vigente su base proporzionale avevano eletto 6 deputati. Chiarisce che per il femminismo, in Italia, «non si tratta, nei confronti del movimento degli studenti, di un venire dopo banalmente cronologico: è piuttosto un venir dopo per andare oltre, tipico di tutti i risvegli collettivi delle donne». E appena dopo propone un’interessante spiegazione della motivazione della rottura e della radicale critica politica portata dalle femministe all’interno della sinistra: «Proprio una dinamica di questa natura dà risposta a un interrogativo che all’inizio ha tormentato molti: perché prendersela proprio con gli uomini più coscienti, con i compagni di lotta? Perché il femminismo, almeno nei primi gesti politici, nasce come pedagogia rivoluzionaria per i rivoluzionari, come denuncia vivente del loro limite».
Vorrei rassicurare, non è una “nostalgia canaglia” che mi spinge a uno scavo del passato. È che penso che quella “separazione” sia tuttora attiva, che accanto a pratiche fruttuose e creative, da cui le donne hanno guadagnato consistenza e autorità, ci siano zone d’ombra, mai abbastanza indagate. Per esempio il sostanziale silenzio, dopo le iniziali proteste, con cui fu accolta dagli uomini, dai compagni rivoluzionari. Naturalmente non tutte le donne lasciarono le organizzazioni e i partiti. Ma ci fu un’emorragia, un venire meno dell’adesione, che nel tempo è diventata una delle sacche persistenti dell’astensionismo. Nell’andare oltre, del femminismo, c’è stato il distacco da quello che Virginia Woolf, nel celebre saggio “Le tre ghinee” (1938), chiama il “corteo degli uomini colti”:
«Eccoli, i nostri fratelli che sono stati educati nelle scuole private e nelle due università; salgono quelle scalinate, entrano e escono da quelle porte, ascendono a quei pulpiti, pronunciano orazioni, impartiscono lezioni (…). È sempre uno spettacolo solenne, un corteo, come la carovana del Sultano che attraversa il deserto. Bisnonni, nonni, padri, zii, tutti hanno percorso quelle strade, con la toga indosso, con la parrucca in testa, alcuni con fasce e nastri sul petto (…). Uno era vescovo. Un altro giudice. Uno era ammiraglio. Un altro generale. Uno era professore all’Università. Un altro era medico (…). E’ uno spettacolo solenne questo corteo (…). Abbiamo voglia di unirci a quel corteo, oppure no? A quali condizioni ci uniremo ad esso? E, soprattutto, dove ci conduce il corteo degli uomini colti?… (…). Non dobbiamo mai smettere di pensare: che “civiltà” è questa in cui ci troviamo a vivere? Cosa significano queste cerimonie, e perché dovremmo prendervi parte? Cosa sono queste professioni e perché dovremmo diventare ricche esercitandole? Dove, in breve, ci conduce il corteo degli uomini colti?»
Certo, lei descrive i borghesi, e prende di mira l’emancipazione come imitazione degli uomini. Ma non è difficile sostituire i borghesi con i compagni, gli uomini di sinistra. Le forme non cambiano, purtroppo. Quell’inesauribile capacità di mettersi in fila, uno di seguito all’altro, nei palchi, nelle segreterie, nei parlamenti. Il marchio patriarcale non risparmia nessuno, neppure gli uomini della sinistra. Che non hanno fatto molto per sottrarsi, soprattutto per sottrarre le loro pratiche, le loro costruzioni, alla trappola mortale della monumentalizzazione ripetitiva. Proprio e principalmente perché non hanno ascoltato quanto le culture politiche del femminismo avevano da dire. Non su stesse e sui propri problemi di donne, ma per tutti. Quanti uomini, quanti degli uomini colti e acuti della sinistra, per esempio, hanno mai letto questo saggio di Virginia Woolf, uno dei più incisivi testi politici del Novecento? L’angolatura del punto di vista di donna che Virginia mette al mondo, non dovrebbe essere essenziale, per chi vuole acquisire uno sguardo generale, che includa e accolga le differenze? O, per parlare di fatti politici, quanti hanno colto, dentro e fuori il Pci, che l’autoscioglimento dell’Udi avvenuto nel 1982 sulla base di una forte influenza femminista, come organizzazione saldamente incuneata, nella sua autonomia, nei tradizionali apparati dei partiti, da Pci e Psi, per diventare invece una libera associazione di donne senza legami politici, era un segnale forte dello smottamento che incombeva? Detto in altri termini, a quanti è chiaro che nella modernità senza il sostegno delle donne anche le forme patriarcali non stanno in piedi?
Mondi paralleli
L’ombra più lunga del separatismo, per le donne, è stata l’instaurarsi di un mondo parallelo. Tuttora vivo, anche se nessuna, nelle nuove generazioni, ha necessità di compiere in prima persona quel gesto originario, l’espulsione degli uomini dalla propria ricerca. Occuparsi oggi delle issues che interessano alle donne, dalla violenza alla parità al lavoro, vuol dire stare tra donne. Al 99 per cento almeno. Il separatismo è un asse paradigmatico, intorno al quale si organizzano saperi e pratiche di esistenza, senza che sia necessario esplicitarlo. A dire il vero, la specializzazione dai saperi sociali non è una prerogativa del femminismo. Nell’attuale frammentazione della politica ai movimenti è delegata la rappresentanza della singola istanza intorno alla quale sono nati, istanza che ritorna sempre su se stessa in un effetto perverso, senza fuoriuscire dal circuito originato dalla propria azione. In altri termini una donna, giovane o meno, che si affacci oggi alle pratiche femministe, si trova di fatto a essere separatista senza averlo mai scelto. Esiste cioè la struttura del separatismo, che proprio per questo risulta derubricato. Non più l’azione politica, non più il “taglio” simbolico ma non per questo meno cruento (Lia Cigarini, La politica del desiderio. Introduzione di Ida Dominijanni, Pratiche) che ha cambiato la postura delle donne e ha aperto un conflitto non sanato con i coetanei, piuttosto un contenitore che riduce il separatismo a pratica rivendicativa. È una torsione che incombe, sul femminismo: punta a sopirne la portata sovversiva. È questa l’ombra che a mio parere nasconde agli occhi delle femministe quanto sia rischioso accontentarsi di puntare a obiettivi parziali. È sacrosanto che le nuove generazioni vogliano combattere contro la violenza. Ma bisognerà ben chiedersi con chi fare alleanze, e ragionare sulle vittime, sulle logiche di potere che rendono alcune più vittime di altre. È quello che Nancy Frazer (Fortune del femminismo. Dal capitalismo regolato dallo Stato alla crisi neoliberista, ombre corte) chiama “ambivalenze” del femminismo. Politiche che hanno come obiettivo l’identità, non la protezione sociale e neppure la liberazione dalla gerarchie oppressive del genere, se non si fa attenzione alla mercatizzazione implicita.
Il catalogo
C’è un passaggio, difficile da cogliere eppure molto netto, che segnala il cambiamento della relazione tra femminismo e sinistra, tra femministe e uomini di sinistra. Si colloca all’inizio del nuovo millennio, in una ricostruzione che procede per balzi, essere puntuali non è qui possibile. Il riferimento è il G8 del 2001 a Genova, n particolare il convegno “Punto G: genere e globalizzazione” che precede di qualche giorno il Social Forum: parteciparono oltre mille donne di 140 organizzazioni di paesi diversi. Per tre giorni si discusse degli intrecci economici, culturali, politici ed economici che influenzano la vita delle persone, le loro relazioni e le loro emozioni. Una nuova generazione prende la parola, si stacca dal passato. L’effetto curioso è che, mentre dei gender issues ci si occupa tra donne, a proposito di questioni come lavoro e precarietà viene cancellata ogni differenza. Ragazzi e ragazze hanno gli stessi problemi. Perché dividersi?
Del resto, come non capirlo, se essere donne è più che altro un catalogo di disgrazie? Nel 2005 viene organizzata una grande manifestazione contro la violenza, a cui farà seguito nel 2007 il grande appello milanese contro Il silenzio delle donne. Grandi numeri, eppure non si riesce a tenere stabile il livello di mobilitazione. C’è un andare e venire, fluido, su un catalogo di temi che si precisa nel tempo e che assume rilievo quando coincide con un’emergenza sociale e mediatica, che la politica – di sinistra, soprattutto – impara a utilizzare a scopi di propaganda. Succede con eventi dolorosi, per esempio lo stupro. Come successe a Roma, dopo la morte della signora Reggiani. Walter Veltroni lanciò una campagna di sicurezza sociale, a beneficiarne fu Alemanno, che nel 2008 fu eletto sindaco. La punta massima è intorno alla spericolata vita sessuale di Berlusconi, e all’ossessione di chi vuole distruggerlo. Solo le donne, si pensa a sinistra, tra partiti e media, possono togliergli il consenso. La grande manifestazione indetta da Se non ora quando il 13 febbraio 2011 è imponente e rivela una grande rabbia femminile, peccato che la spinta si esaurisca rapidamente, senza trovare il modo di mantenere la connessione con tutte le donne mobilitate. Continua invece la campagna contro la violenza sulle donne, si tiene un’inesorabile contabilità delle vittime. Si stenta a trovare forme inventive di intervento. L’unica vera novità è che sulla violenza alcuni uomini prendono la parola. Scrivono un documento, fondano Maschile Plurale (http://www.maschileplurale.it/info/). In negativo, la pratica non si allarga, soprattutto non entra nella cittadella della politica.
Cura, welfare, crisi
Per affrontare ciò che più mi interessa, le idee originali che il femminismo, pur nelle difficoltà e contraddizioni attuali, può portare alla trasformazione di una sinistra che fatica ad andare oltre il proprio radicamento nel Novecento, e esserne parte attiva, soggetto protagonista di un possibile progetto di alleanza, prendo in prestito un’affermazione di Carol Gilligan. Si trova nel suo ultimo libro “La virtù della resistenza” (Moretti&Vitale).
«In una cornice patriarcale la cura è un’etica femminile. In una cornice democratica la cura è un’etica dell’umano», scrive, mentre ragiona di come il femminismo sia «uno dei grandi movimenti di liberazione che hanno avuto luogo nella storia dell’umanità. Il movimento che vuole liberare la democrazia dal patriarcato». Anche per la sinistra, per il suo stesso futuro, è fondamentale liberarsi dal patriarcato. E non solo per non indulgere alla ripetizione di rituali mortiferi che puntano solo potere e alla creazione di gerarchie fine a stesse. Imparare anche a prendere in considerazione le relazioni per quello che sono. Portare in pubblico, fare oggetto di autentica attenzione politica le reali relazioni tra donne e uomini che innervavano-innervano la vita dei partiti, grandi e piccoli. Compresa la sessualità, senza alimentare la divisione tra pubblico e privato. L’effetto sarà benefico, si dovrebbe ridurre quel curioso moralismo arcaizzante che affligge la sinistra. Come se non fossero state le tradizioni socialiste e comuniste a incoraggiare la libertà sessuale, l’emancipazione delle donne, come se il rigore della separazione di pubblico e privato fosse la garanzia di un ideale rivoluzionario. Una separazione che i partiti, i partiti tutti maschili del Novecento, hanno perseguito anche dopo il sessantotto e il femminismo, risvolto non dichiarato del separatismo femminista, effetto reattivo all’esperienza del trauma del taglio. I risultati sono sotto gli occhi. Donne e uomini condividono lo spazio pubblico, senza nessuna consapevolezza delle reali relazioni che esistono. Come se essere di sinistra costituisse una specie di salvacondotto, come se l’antica esperienza delle lotte per l’emancipazione potesse risparmiare dal considerare quali sono i rapporti reali. Se la cura continua a essere una qualità femminile, sempre evocata e quasi mai praticata, non sarà perché il partito novecentesco continua a trascinarsi dietro la zavorra patriarcale?
In questo quadro il femminismo, le femministe sono concepite – e ci siamo concepite, almeno in parte– come un mondo a sé, fuori dalla comune storia politica del paese. Una frattura traumatica che è necessario affrontare e risolvere, se si vuole davvero che i progetti di un nuovo soggetto non si ispirino a modelli logori, privi ormai di senso. Il nuovo welfare, per esempio, il welfare da imporre a governi tuttora dediti alla cancellazione di ogni assistenza, non avrà come modello il sostegno a una famiglia che vede i lavori di cura in posizione secondaria. È in corso una ridefinizione generale: dei modi di vivere, della costruzione del mondo degli affetti, di come si viene al mondo. E non tanto sotto l’aspetto delle biotecnologie, quanto delle forme relazionali-sociali in cui le nuove creature troveranno accoglienza. In fondo l’ideologia neoliberista è nutrita di obiettivi femministi, per esempio è investita in pieno di tutta la retorica del soffitto di cristallo da abbattere.
La macchina del tempo
Mi piace pensare alle generazioni come a quelle astronavi che nei libri di fantascienza viaggiano nell’iperspazio, e fanno salti temporali, sulla base della teoria della relatività. Fuori il tempo corre velocissimo, all’interno i legami si mantengono come sono, e seguono le evoluzioni del normale tempo umano. Una metafora per dire che i nodi non sciolti rimangono tali, e ti accompagnano per sempre, se non ci si adopera a districarli. Che le relazioni immobili tra donne e uomini della sinistra, mai sciolte, producono a loro volta immobilità. E pesano sulle nuove generazioni, che non ci capiscono molto, magari, ma non possono allentare nodi che non sono in grado di vedere. Un peso che incombe non solo perché non ci sono abbastanza donne ai tavoli che contano, o troppo pochi asili nido. Liberare l’immaginazione sociale per ripensare modelli sociali è impossibile, se si è imprigionati in schemi vecchi, se non si affronta cosa vogliano dire nuove relazioni, nuovi scambi tra donne e uomini. Se non si entra nel merito di come tutto questo cambi il modo di fare politica. Mi auguro che crolli la barriera, il muro di gomma sperimentato nei contesti politici negli ultimi dieci anni, ostacoli che determinano la completa impossibilità di trovare spazi per modificare la politica. Sulla spinta della crisi. Che riporta all’essenziale, all’individuazione di ciò che serve a vivere. E mette sotto gli occhi di tutti nuove relazioni, nuovi modelli di relazioni familiari e sentimentali, anche nel bisogno più urgente. La protezione sociale da costruire ne deve tenere conto, non può ispirarsi al vecchio modello del padre di famiglia, per esempio. Qui vedo la posta in gioco, nello scambio tra sinistra e femminismo, nella costruzione di una visione in comune.
Poi può succedere come a Cooper, il pilota spaziale protagonista di Interstellar, il film di Christopher Nolan. Ritorna e trova la figlia ben più vecchia di lui. Paradossi del tempo, e dei rapporti tra le generazioni. Del resto lo diceva già Sant’Agostino, il tempo è una misura interiore. Il presente è ciò che conta.