TIMBUKTU – film di Abderrahmane Sissako –
Finora, a rappresentare il Califfato, il mosaico degli infiniti gruppi dell’islamismo radicale, sono stati i video delle decapitazioni, le file di prigionieri in tuta arancione, le bandiere nere. Una selezione confezionata per “il crociato” occidentale.
Adesso, con il film Timbuktu di Abderrahmane Sissako, originario della Mauritania, cresciuto in Mali, studi di cinema in Russia, che lavora a Parigi, assistiamo allo sfregio improvviso subito da uomini e donne, alla insensatezza dell’arbitrio, al tradimento della loro umanità da parte di chi gli ha dichiarato guerra.
Siamo nell’estate del 2012, quando gruppi salafisti si impossessano del Nord del Mali e della “perla del deserto”, Timbuktu. Mentre ci aspettiamo immagini di spettacolarizzazione della violenza, questa viene evocata dalla sottrazione di un pallone; dal video di propaganda al rappista pentito; dall’imposizione dei guanti alla pescivendola.
Certo, la macchina da presa sfiora una lapidazione, la pena delle quaranta frustate, l’esito scontato di un processo. Tuttavia, la morte si annuncia con la fuga di una gazzella piuttosto che nel fanatismo dei carnefici i quali si servono del traduttore giacché mancano di una lingua comune.
Francese, inglese, arabo, berbero, tuareg. Eppure, lo scontro si gioca sull’interpretazione delle Scritture. E del Jihad, che per il mite imam del film rappresenta “un conflitto dentro di sé” per la giustizia, la verità e l’amore di Dio, mentre per gli uomini armati è dominio, radicalizzazione della religione, imposizione della sharia.
Lo sappiamo: le parole hanno potere sulle cose. Di ieri la catena umana musulmana a Oslo a protezione della sinagoga; di qualche giorno addietro, il discorso di Obama che ha rifiutato di definire “islamico” il terrorismo dell’Isis.
Le fragili immagini di Timbuktu, nella difesa incarnata della dignità femminile, nella pazzia di Zadou, “squarciata” dal dolore, nell’amore commovente di una famiglia tuareg che vive nel deserto, indicano la possibilità disperata che impedisce al mondo di inabissarsi.
Il film, coprodotto dalla Francia e dalla Repubblica islamica di Mauritania, ha raccolto sette statuette dei César.
Adesso vorremmo che gli fosse attribuito l’Oscar per il migliore film straniero.