pubblicato sul manifesto il 17 febbraio 2015 –
“L’armi, qua l’armi: io solo
Combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
Agl’italici petti il sangue mio.”
Così Leopardi in quella poesia “All’Italia” che forse non è tra le sue cose migliori. In una remota preistoria personale ricordo il capo di un gruppuscolo extraparlamentare citare quel passo a riprova della velleitaria debolezza di una certa ideologia piccolo-borghese. La rivoluzione, la lotta armata, la guerra, sono cose serie, politicamente e tecnicamente, e non possono essere sostituite dall’enfasi retorica, anche se concepita da uno dei massimi geni nazionali. Quanto poi potesse essere etichettata come piccolo-borghese anche quell’idea di rivoluzione armata è altra faccenda…
Mi è venuto in mente mentre contemplavo – e contemplo – sbigottito e anche un po’ angosciato la serie degli avvenimenti e delle dichiarazioni pubbliche sulla situazione in Libia. Due ministri dicono che l’Italia è pronta a “combattere”, che ci sarebbero già almeno cinquemila soldati sul piede di guerra. Certo sotto l’egida dell’Onu… Ma l’Onu ha preso qualche decisione? Sembra di no, visto che solo ieri Hollande ha chiesto la riunione dei Consiglio di Sicurezza.
E Renzi? Una battuta sulla “solitudine del comando” davanti ai Carabinieri e i suoi riferimenti alla Libia di fronte al dramma dei naufragi nel Mediterraneo mi hanno fatto pensare che anche lui avesse tratto il dado per “il mestiere delle armi”. Invece ha subito cambiato verso: “Non è tempo di interventi militari”, ha dichiarato ieri, forse consigliato da Romano Prodi, indicato come uno dei possibili mediatori di una azione diplomatica in extremis.
Però mentre qui da noi si intrecciano le dichiarazioni contraddittorie, in Libia il generale egiziano Al Sisi ha già cominciato a bombardare in nome del “diritto alla vendetta” dopo l’uccisione dei copti catturati dall’Is.
E le cronache – quanto realmente informate? – fanno il conto dei terroristi uccisi, ma anche degli inevitabili “danni collaterali”, cioè donne e bambini vittime delle incursioni mai sufficientemente “mirate”.
In realtà siamo circondati dalle armi.
La tregua chissà se regge in Ucraina. Lì potrebbero prima o poi arrivare anche le armi “letali” promesse dall’America (più “letali” di quelle che già provocano stragi quotidiane?).
Da Copenaghen arriva l’elenco delle armi possedute da un ventenne già condannato per aver usato un coltello, poi passato al mitra e alle pistole contro liberi pensatori e ebrei riuniti in Sinagoga.
C’è poi chi evoca il ruolo delle armi anche in relazione al difficile negoziato economico con la Grecia di Tsipras: se l’America e l’Europa non troveranno una soluzione c’è il rischio che Atene si allei con Mosca. Con effetti geopolitici che evocano la catastrofe aperta da quei colpi di pistola sparati a Sarajevo 101 anni fa (vedi i commenti domenicali di Panebianco sul Corriere e di Zingales sul Sole 24 ore).
Il fascino che esercitano le armi, soprattutto su noi uomini, è innegabile. Ma un’amica mi raccontava di un’altra sua conoscente assidua dei poligoni di tiro, espertissima dei modelli di pistola più di moda nelle fiction su mafia, camorra e affini.
Sembra urgente ricorrere ad altri tipi di arma, effettivamente meno “letali”. Le armi della critica (con buona pace del giovane Marx), quelle della persuasione, dell’ascolto, della ricerca, dell’informazione.
Mi ha sempre molto scandalizzato il silenzio dei media italiani su tutto quello che è successo in Libia dopo la guerra che ha eliminato Gheddafi. Chissà se ora qualcuno proverà a porre rimedio almeno a questo colpevole black-out.