Ma il patriarcato è davvero finito? O invece è vivo e vegeto, anzi è al contrattacco? Oppure si è adagiato, per dir così, in una flaccida crisi di identità?
Questa breve premessa semiseria serve solamente a introdurre un’affermazione che non so quanto sia scontata o invece possa risultare per qualcuno sorprendente: ho letto il tanto discusso libro di Michel Houellebecq, Sottomissione ( Bompiani ), e mi pare che più di un’allegoria sullo scontro tra Occidente decadente e ormai fallito e Islam all’attacco con seducente capacità egemonica, sia in realtà una meditazione tra l’ironico e il malinconico sulla fine del patriarcato.
La cosa, del resto, è tematizzata con precisione a pag. 36, nella parte introduttiva del romanzo: Myriam, la giovane amante del protagonista, lo apostrofa come macho. Lui un po’ si risente e risponde, scherzando e no, che forse le libertà e l’emancipazione delle donne non sono “una buona idea”.
Allora Myriam domanda: “Sei per il ritorno al patriarcato?”
E la risposta: “Io non sono per assolutamente niente, lo sai, ma il patriarcato aveva il merito minimo di esistere, nel senso che in quanto sistema sociale perseverava nel proprio essere, c’erano famiglie che mettevano al mondo figli e riproducevano all’incirca lo stesso schema, e insomma, funzionava: ora invece non ci sono abbastanza figli, quindi è finita”.
Dunque la tesi di partenza del libro è che il patriarcato proprio non c’è più. Del resto i sintomi di un crollo completo dell’autorità maschile sono descritti nel ritratto di una università in cui i docenti si trascinano senza scopo e senza desideri nelle loro noiose carriere accademiche, senza alcun interesse reale per i loro studenti ( salvo quello erotico per le studentesse), senza alcuna passione per una politica, fuori dagli atenei, che peraltro sta fallendo miseramente il suo compito.
Di questo spleen privo di prospettiva, di passioni e di amore il protagonista è personificazione raffinata. L’unico suo serio impegno scientifico, in gioventù, è stato lo studio dell’opera e della vita di Huysmans, che alla decadenza della società del suo tempo oppone prima una fuga nella pura dimensione estetica, e poi una conversione al cattolicesimo e alla vita monastica.
Il “doppio” dello scrittore decadente descritto da Houellebecq cerca conforto nelle frequentazioni di escort, ma con scarsissimo piacere, e poi alla fine si converte all’Islam – com’è noto – riguadagnando una cattedra e soprattutto potendo divenire un felice poligamo, circondato da donne esperte e sottomesse.
Mi pare dunque che l’Islam qui assolva alla funzione, più o meno onirica, di quella restaurazione patriarcale evocata e desiderata all’inizio del racconto.
Non ho letto gli altri libri di Houellebecq, e vedo che molti recensori lo accusano di essere un destro reazionario. Io non saprei dirlo da questo testo, la cui cifra mi pare una sconsolata, abile ironia.
Naturalmente dire questo non significa rimuovere lo spessore dei problemi sociali, geopolitici e culturali che il terrorismo islamista esploso in Francia in concomitanza all’uscita del romanzo, e le proteste di massa contro Charlie Hebdo in diversi luoghi del mondo musulmano, ci mettono davanti agli occhi.
Il fatto di cui prendere coscienza mi sembra quello illustrato domenica sulla Lettura del Corriere da Luciano Canfora: nella storia è sempre successo che la rabbia dei diseredati contro i privilegiati assumesse determinate caratteristiche culturali, magari ricche di “furore mistico-religioso-palingenetico”. Come oggi certe declinazione dell’Islam.
Ricordo che subito dopo il crollo del comunismo, nell’89, sentii il bisogno di acquistare una copia del Corano.