Vivo dalle parti di San Pietro. Ho sempre considerato una fortuna poter incontrare con lo sguardo la cupola di Michelangelo. Adesso però uomini e donne – soprattutto donne – che abitano qui hanno paura.
Temono questa drole de guerre nella quale ai disegni di Charlie Hebdo qualcuno (o tanti?) ha contrapposto i proiettili del kalashnikov. Sono due messaggi incommensurabili: da un lato il segno dell’irriverenza, della dissacrazione, dell’offesa e dall’altro il passaggio all’atto violento.
Messaggi simbolici, certo. Il primo sostiene enfaticamente la laicità; il secondo vuole il ritorno in forma violenta al religioso, inteso nelle sue derive dogmatiche, nei suoi totalitarismi ideologici.
Distanza abissale che rimanda al conflitto di civiltà di Samuel Huntington, alla guerra infinita di G.W.Bush, all’ Eurabia di Oriana Fallaci (ripubblicata nei giorni scorsi dal Corriere della Sera quasi avesse sciorinato pillole di saggezza).
Stéphane Charbonnier, direttore di Charlie Hebdo. Considerava la laicità “una causa per la quale vale la pena di morire”. E’ stato ucciso insieme a undici persone. Il giornale ci prendeva gusto a negare il sacro. Ma, al fondo, si può vivere senza un riferimento al sacro, senza idee in cui credere, senza il nutrimento di una spiritualità?
Domanda inopportuna. Di fronte all’orrore di dodici vittime, compreso “Charb”, il direttore con maglietta a righe e pugno chiuso, di questi tempi devi giustificarti; mettere le mani avanti. E’ importante la libertà di esprimersi, dunque Je suis Charlie ma per temperamento Je ne suis pas Charlie Hebdo. Comunque, vedo bene la differenza tra le pagine di un settimanale satirico (la vedeva il poliziotto Ahmed Merabet oppure il commesso musulmano Lassana Bathily, originario del Mali, che ha salvato sei clienti nel supermercato kosher) e la ferocia di chi ha deciso di cancellare quelle pagine.
Però la tolleranza non sembra a portata di mano.
Anche se quei capi di Stato sottobraccio, l’altro giorno, alla manifestazione di Parigi, pare che sfilassero in nome della civilizzazione europea; che promettessero di riprendersi dall’inettitudine politica. Benché, certo, potevi scorgere nelle prime file anche dei tipi poco raccomandabili. Mentre circola la vecchia teoria del “male minore” secondo la quale l’alleanza con l’egiziano Al-Sisi, con il siriano Assad, con il russo Putin, batterà il Califfato e Al-Qaeda.
Ipotesi che andrebbe, perlomeno, accompagnata da qualche spiegazione in più sul disastro combinato in Iraq, in Afghanistan, in Libia. In effetti, cosa cerca questo movimento di giovani – francesi, inglesi, olandesi – arabi dell’ultima generazione di immigrazione, convertiti, uomini e donne in Siria, nello Yemen? Non mi convince la spiegazione che attribuisce unicamente al liberismo “la fracture sociale e l’erosione dell’agire politico” (Salvatore Palidda su Alfabeta2.it). Bisogna provare a leggere cosa segnala l’addestramento nei ranghi jihadisti.
Certo, nella banlieu la vita è durissima. “Fino a che la nostra democrazia non dimostrerà di essere accogliente e continuerà con le diseguaglianze, questo tipo di terrorismo troverà un terreno favorevole” (Massimo Cacciari su Repubblica del 9 gennaio).
Sì, accoglienza. Senza dimenticare quali richiami pesino sulla soggettività di chi aderisce al radicalismo islamico; come il senso di sé sia plasmato dall’ambiente sociale, da internet e dalla rabbia, dall’umiliazione, dalla disperazione di trovarsi a annaspare in un vuoto identitario. Vuoto che è facile riempire con la brutalità.
Per questo bisogna puntare sui “mediatori”, sui maestri di strada, sulle madri dei terroristi. Questa esperienza (devo la segnalazione a Marina Terragni) è raccontata in una intervista alla sociologa e scrittrice autriaca Edit Schlaffer di Nina Weissensteiner, pubblicata da Der Standard, quotidiano austriaco, il 19 dicembre 2014, e tradotta da Maria G. Di Rienzo (giornalista e formatrice, autrice del blog lunanuvola). Schlaffer fa parte di Donne senza confini, organizzazione che ha creato “Sisters Against Violent Extremism / Sorelle contro l’estremismo violento – Save”, la prima piattaforma globale antiterrorismo basata sull’attivo coinvolgimento delle donne e soprattutto delle madri che vanno considerate la prima linea di difesa dal terrorismo. Magari provando a ritessere il tessuto sociale lacerato. Con la vicinanza, con la rottura del silenzio. Anche questi sono strumenti che ostacolano la voglia di dare – e darsi – la morte.