Vorrei contribuire con questi appunti “in soggettiva” a una rielaborazione, a un esercizio sulla memoria e sul presente, che credo sarebbe utile per tutti gli uomini e le donne (ma soprattutto per noi uomini) che non rinunciano all’idea di una sinistra politica capace di agire per la libertà. Non affermando l’idea astratta di un altro modello sociale, magari proiettato nel futuro, ma verificando la possibilità concreta e quotidiana di un modo diverso di vivere. Primum vivere hanno detto le femministe italiane che due anni fa si sono riconvocate a Paestum. Un cambiamento che comincia nella qualità delle nostre relazioni, qui e subito.
Il ‘68
In fondo c’era qualcosa di simile nelle utopie che mossero il ’68. Soprattutto all’inizio. Un “pensiero originale”, l’ “affacciarsi di un poter essere… vivo ed effettivo”. Uno sprigionarsi di energia, soprattutto giovanile, che “manda il mondo in ebollizione”, per usare le parole di Luisa Muraro (La risata del ’68, Nottetempo, 2008). Oppure una rivoluzione non per “la presa della Bastiglia”, ma per “la presa della parola”, contro ogni forma di autoritarismo, come scrisse subito dopo il Maggio francese Michel De Certeau (La presa della parola, e altri scritti politici, Meltemi 2007). Una rivoluzione simbolica.
Ma gli uomini della sinistra, dai gruppi extraparlamentari, ai partiti per lo più sordi e diffidenti, a chi si gettò nella lotta armata, tradirono velocemente quella ispirazione e quella spinta libertaria, che pure ancora oggi riproduce tracce nei nostri vissuti e riemerge sistematicamente nel conflitto politico e culturale. Aiutati dalle forze che in Italia alimentarono la “strategia della tensione”.
Ricordo – in crescendo dopo il ’69 – questo fascino esercitato dalla violenza, più o meno “storicamente” giustificata. Ricordo accanto a me giovani maschi che hanno buttato le loro vite armandosi e entrando in clandestinità. Ricordo i primi incontri con donne che già stavano cercando altre strade, che avevano i loro gruppi separati, che parlavano più volentieri di Freud e della psicanalisi, e poi di una certa Carla Lonzi, che non di Marx, Lenin, Stalin e Mao Tse Tung. Una strada che era stata imboccata insieme da giovani uomini e giovani donne, si divideva radicalmente.
Nel Pci
Nel ’71 lasciai perdere l’estremismo postsessantottino e poco dopo, nel ’73, mi iscrissi al Pci. Cominciando presto a lavorare all’Unità. Nel partito comunista ho conosciuto altre donne che cercavano di portare un punto di vista femminista in quella comunità e in quelle gerarchie. Nei loro confronti dirigenti e militanti avevano atteggiamenti contraddittori: erano, eravamo ammirati dalla fierezza di quella rivendicazione di libertà, di soggettività, di forza. Mi è capitato più di una volta di essere incaricato di intervistare per il giornale del partito la giovane femminista che – caso abbastanza raro e significativo – si era iscritta al Pci. Ma presto fu chiaro il malinteso: non era pensabile una “alleanza” con questa nuova e strana presenza femminile che non comportasse un mutamento radicale delle abitudini maschili, delle consolidate liturgie del potere. Le donne capirono che erano necessari per loro altri luoghi, che permettessero di non smarrire il guadagno del separatismo, dell’autocoscienza. Nasceva quella pratica di “doppia militanza” che si è sistematicamente riprodotta nell’arcipelago sempre più frammentato della sinistra. Poi ci fu un altro sommovimento imprevisto con il ’77. Il femminismo si riproduceva, il partito si chiudeva in sé, “sempre di più”, come canta Paolo Conte.
Il laboratorio degli anni ‘80
Gli anni del riflusso, della “Milano da bere”, sono stati in realtà anni di ricerca, di elaborazione in non pochi ambiti della sinistra. Non solo per il cambio di visione che cercò di introdurre Berlinguer dopo l’assassinio di Aldo Moro e il fallimento della solidarietà nazionale. Ma anche per la vivacità di alcuni ambienti intellettuali. Penso alla ricchezza dei materiali raccolti da riviste come Laboratorio Politico e come Alfabeta. Quando è tornata in edicola e on line Alfabeta2 ho acquistato tutta la vecchia raccolta (’79 – 88) in formato elettronico e l’ho sfogliata riscoprendo le tracce di un dibattito critico sui fondamenti della teoria politica di grande rilievo. Con numerose testimonianze sull’elaborazione del femminismo italiano, che produceva proprio in quegli anni i suoi testi fondanti (i Sottosopra e Non credere di avere dei diritti della Libreria di Milano, la rivista Lapis).
Nel Pci ci si rendeva conto, con ritardo e con divisioni interne sempre più acute, che era necessario – come si dice – un “cambio di paradigma”. E che un diverso sguardo sulla differenza sessuale ne poteva essere leva essenziale. Ricordo una contrastata ma vincente votazione congressuale, già nel ’79 – era il XV congresso – sull’affermazione nelle tesi che la “contraddizione di sesso” connota la società al pari della “contraddizione di classe”.
Più tardi la “Carta delle donne” fu il tentativo di rilanciare nella pratica politica del Pci una presenza femminile e femminista capace di andare oltre la logica delle “commissioni femminili”, eredi dell’emancipazionismo. Era il 1987. Il tempo precipitava verso la svolta epocale del crollo del Muro e della catastrofe del mondo sovietico.
Il crollo del muro
Sono sempre più convinto del fatto che la fine del “socialismo realizzato” in Urss e nell’Europa dell’Est sia stato un trauma che la sinistra – anzi le sinistre e le loro culture, dalle socialdemocrazie al Pci, all’area multiforme della sinistra “radicale” – non sono riuscite a elaborare con la necessaria profondità. Per legame o per contrasto da quell’esperimento aperto dall’Ottobre sovietico dipendeva l’assetto, anche e soprattutto mentale, della sinistra nel mondo. La risposta al crollo del Muro è stata debole: si è creduto che si sarebbe tradotto meccanicamente nel “nuovo inizio” per una nuova libertà. Ha dominato la rimozione di una storia, dei suoi grandi ideali e delle sue grandi tragedie. Una parte maggioritaria ha finito con l’abbracciare altrettanto deboli posizioni liberaldemocratiche (nel migliore dei casi). La sinistra “radicale” – anche negli anni recenti per effetto della crisi economica globale – in grande misura è tornata nostalgicamente ai miti statalisti e collettivisti, o a loro nuove interpretazioni riduttive. Con la continua ricerca di un “soggetto” collettivo egemone, motore del cambiamento più o meno rivoluzionario: la moltitudine, il quinto stato, il bene-comunismo, ecc. Miti sostitutivi del grande mito della “classe operaia”.
Rispetto alla ricerca maturata lungo gli anni ’80, alla quale ho accennato, c’è stato un effetto di “tabula rasa”. Anche la tendenza a uno scambio fecondo tra le culture della sinistra e i femminismi è stata rimossa, quasi cancellata. Naturalmente il femminismo, con la sua critica all’ordine patriarcale, apre una contraddizione che ha un valore universalistico. Ma, in particolare in Italia, è successo concretamente che i tentativi di uno scambio con la sinistra politica e sindacale si siano ripetuti. Anche recentemente, per esempio con l’esperienza milanese dell’ Agorà del lavoro, significativamente promossa da tendenze diverse del femminismo radicale (e da alcuni uomini che però di fatto hanno poi disertato questa pratica), o con l’elaborazione del gruppo romano delle femministe del mercoledì sulla Cura del vivere, che nel maggio scorso ha dato luogo anche a un testo e a un confronto pubblico in cui l’ottica della cura come leva di rovesciamento dell’assetto neoliberistico è stata puntata sulla crisi dell’Europa.
Sarebbe importante riflettere meglio sulle ragioni profonde di questa sorta di attrazione reciproca che però si risolve sistematicamente in un mancato incontro, in delusioni poco amorose.
Identità collettive e corpi sessuati
Il punto che propongo sono le ragioni della cecità e sordità maschile all’occasione offerta dalla teoria e dalla pratica politica del femminismo. Credo infatti che il nodo fondamentale sia l’incapacità delle culture politiche maschili della sinistra di emanciparsi dai miti del soggetto collettivo, dal bisogno di una identità fondata sull’appartenenza a una comunità. A un altro da sé. La resistenza rispetto all’idea femminista che alla radice della politica sono i singoli corpi sessuati e le loro relazioni, fatte di desiderio, di asimmetrie nella produzione di autorità e di potere, e che ogni mutamento anche sociale non può che partire da una lotta, prima di tutto interiore, praticata a partire da sé e nel vivo di relazioni reali tra individui e individue.
Penso che questa resistenza derivi dalla difficoltà, antropologica e storica, di noi maschi a riconoscere la realtà del nostro corpo. Del come questo corpo sia determinato da una dialettica tra istinto, desiderio, impossibilità a generare direttamente la vita, condanna storica all’esercizio della forza e della violenza. Mi ha colpito tempo fa la lettura di un vecchio saggio di Levinas sulla “filosofia dell’hitlerismo” (1934): il razzismo come forma ideologica di un “incatenamento al corpo” che riduce il dualismo tra io e corpo a un unico elementare biologico. Una cosa che scatena aggressività, violenza, guerra come eliminazione dell’altro, del diverso, del nemico. E mette in gioco non solo un’ideologia e una politica totalitaria, ma l’umanità stessa.
A me pare che si parli qui – non del tutto consapevolmente – del corpo maschile. Per elaborare il rischio di questo incatenamento biologico – probabilmente sempre in agguato – sembra necessaria una dialettica liberatrice tra “spirito” e corpo. Da qui la tendenza all’astrazione, a un fare mondo attraverso ideali universalistici astratti e le loro discipline, spesso feroci. Questa forse è la ricerca da aprire: tornare alla realtà dei nostri corpi, senza incatenarsi alla loro biologia, ma senza rimuoverne la realtà concreta, differente e singolare. Un passaggio indispensabile per costruire nuove relazioni tra uomini e tra uomini e donne, radice e fondamento di qualunque politica. Anche a sinistra.