Pubblicato sul manifesto il 2 dicembre 2014 –
Facendo zapping l’altra sera mi sono imbattuto in un servizio sulla diffusione della passione per la maglia e l’uncinetto in Italia (e nel mondo), tanto da riempire una grande manifestazione fieristica a Roma. Si parlava della riscoperta del piacere della manualità creativa, e anche dello stimolo che la crisi economica produce a un far da sé, per non rinunciare al desiderio di un bel maglione, di una sgargiante cuffietta per la neonata, o di una sciarpa personalizzata per il fidanzato risparmiando in misura notevole sui costi.
Pratiche e sentimenti sicuramente femminili, ma non solo. Dalla tv ho appreso che questa passione sta contagiando anche il mio sesso, al punto che è nato da qualche anno una associazione che si è chiamata Magliuomini, molto attiva. C’è anche una pagina su Facebook (https://www.facebook.com/groups/magliuomini/) con il significativo sottotitolo il piacere di condividere. Ne fanno parte alcune centinaia di maschi (ma anche quasi altrettante femmine).
Lì per lì i residui virili che albergano in me hanno determinato una reazione di sconcerto: a questo dunque siamo “ridotti”? Poi ha prevalso un moto di simpatia, anche perché mi è venuto improvvisamente in mente che da bambino a un certo punto mi ero anch’io cimentato nel lavoro a maglia. Sotto la direzione di mia nonna, una sarda dal carattere d’acciaio che, giovane vedova, si era cresciuta una famiglia di otto figli tra maschi e femmine. E si occupava anche dell’educazione di una nipotina down, indimenticabile compagna di giochi nelle vacanze estive, alla quale aveva insegnato a leggere e a scrivere e tante altre cose. Con lei dunque ci toccò di sfidarci anche nella produzione di maglie, oltre che in una quantità di altri piccoli lavori domestici che la nonna ci imponeva affettuosamente ma inderogabilmente.
Forse, ripensandoci, quelle estati mi hanno aiutato a crescere con meno pregiudizi sui ruoli, gli stereotipi, la differenza.
Chissà – ecco il pensiero successivo – se gli ideatori di Magliuomini sanno dell’esistenza di un testo, abbastanza difficile per la verità, che la filosofa femminista Luisa Muraro aveva intitolato anni fa Maglia o uncinetto. Se ricordo bene, e se non avevo capito male, vi si parla della differenza tra un linguaggio e un sapere metonimico – più aderente alle cose, corpi, materia, esperienza reale – e uno metaforico, più astratto e ideale, adatto a esprimere geniali pensate ma anche foriero di madornali cantonate, per dir così.
La parola Magliuomini deriva chiaramente dall’unione di maglia e uomini. Però può anche essere scomposta diversamente: ma gli uomini… Seguita da puntini di sospensione, o da un punto interrogativo, apre a riflessioni difficili sulla attuale condizione del sesso maschile. Dedicarsi al lavoro a maglia e a uncinetto vuol dire sottrarsi alle proprie responsabilità per un mondo finora gestito e pensato da noi che non va affatto bene, oppure è un sano volgersi a un altro tipo di esperienza e di filosofia, più attenta alla concreta tessitura della realtà e delle nostre vite?
Ci sono in giro segnali linguistici che evocano questa seconda direzione. Renzo Piano ha destinato il suo stipendio da senatore a sostenere la ricerca di giovani architetti per rammendare le periferie urbane disastrate urbanisticamente e socialmente. Sto leggendo un bel giallo di Henning Mankell (La quinta donna Marsilio) in cui l’aumento della violenza e del disagio nella Svezia anni ’90 viene messo in relazione dal mitico commissario Wallander al fatto che “non si rammendano più i calzini”. Tutto si consuma e si perde subito.