Due giorni e una notte – Film di Luc e Jean Pierre Dardenne –
In una piccola città industriale Sandra, che era in malattia per depressione da qualche mese, perde il lavoro che svolgeva in una piccola industria di pannelli solari, dove lavorano diciassette operai, anzi sedici adesso. Avendo ottenuto la possibilità di eseguire una seconda votazione, due giorni e una notte sono il tempo che la protagonista – una bravissima Marion Cotillard – ha per cercare di far cambiare idea ai colleghi che sono stati messi di fronte alla scelta o di incassare un bonus o di far riassumere Sandra.
Aiutata da un affettuoso e collaborativo marito Manu (Fabrizio Rongione) e dall’amica e collega Juliette (Catherine Salée) vincerà le sue reticenze e insicurezze per cercare di incontrare uno a uno i colleghi che potrebbe votare a suo favore. Nei film dei fratelli Dardenna i temi del lavoro sono spesso centrali: i licenziamenti immotivati, le ingiustizie subite, la povertà o lo sfruttamento degli immigrati clandestini sono le questioni trattate in Rosetta del 1999 e in La promesse del 1996.
L’inizio del film ci presenta questo sottofondo cupo che allude alla crisi economica e produttiva – dovuta anche alla concorrenza asiatica – e mostra la durezza dei padroni (ma allora esistono ancora?) e il ricatto fatto ai lavoratori ai quali è girata la grossa responsabilità del licenziamento. Il racconto delle due giornate si svolge nella periferia residenziale di una cittadina industriale belga (Seraign in provincia di Liegi) a bassa densità abitativa con casette prevalentemente a due o tre piani e spazi collettivi come il campo da calcetto, i pub e i bar di quartiere.
L’assenza di colonna sonora musicale di commento – salvo che non siano i protagonisti stessi a mettere la musica in automobile – già presente in alcuni film precedenti, si fa qui più simbolica. Non c’è armonia che possa sostenere questa giovane donna che ogni volta sembra vicina alla meta. I due autori, chiedono allo spettatore di partecipare all’angoscia della protagonista lasciando però un barlume di speranza. Nello stesso tempo l’habitat senza suoni e rumori assume una strana connotazione surreale.
Si nota anche che gli operai fanno parte ormai di una classe piccolo-borghese non vicinissima alla soglia di povertà: solo uno dei colleghi dice che con il bonus di mille euro potrebbe pagarci la bolletta del gas di un anno. La periferia mostrata è piuttosto pulita e ordinata rispetto a quelle già presentate dai due autori che delle periferie operaie hanno portato nel cinema un messaggio forte sia in senso etico sia artistico.
Man mano il film sembrerebbe diventare corale come se le votazioni per il licenziamento fossero un pretesto cinematografico per introdurre persone, ambienti e le loro storie, un po’ come da tradizione di certi film francesi, anche se i fratelli Dardenne si ricollegano stilisticamente alla tradizione documentaristica belga e olandese.
Ogni incontro tra Sandra e il/la collega scatena una sorta di evento nelle loro vite. Anne discute con il marito, in disaccordo con l’ipotesi di sostenerla a discapito del bonus, che lascerà perché si rivela in tutta la sua meschinità: «è la prima volta che decido una cosa da sola!» dirà finalmente liberatasi. Tra il collega anziano e il figlio, entrambi lavoratori della fabbrica, scoppia una discussione animata e violenta anche fisicamente; il padre, più sensibile, passa dalla parte della lavoratrice ingiustamente licenziata. Perfino il giovane collega africano, nonostante la precarietà del suo contratto a termine, rischierà il posto per portarsi dalla parte di Sandra.
Per tutti i due giorni e una notte, una fragile Sandra emaciata e vestita sempre uguale, continua a mandar giù tranquillanti in eccesso, sentendosi umiliata nel richiedere il voto e non sentendosi veramente amata nemmeno dal marito, pensando di stimolare solo compassione. Man mano dalla disperazione si passa alla speranza attraverso alti e bassi che non narro. Alla fine, da film drammatico sembra quasi diventare commedia e si potrebbe dire che, nonostante il fatto che non avrà più quel lavoro, la Cotillard ritrova fiducia in se stessa, sicurezza e anche il sorriso, grazie proprio alla solidarietà dimostrata dal piccolo gruppo di colleghi e amici.
«Se il percorso di Sandra è più ottimista di certa realtà è perché noi pensiamo che il cinema debba mostrare come potrebbero essere diverse e possibili le cose – spiegano i fratelli Dardenne – Ma non aspettatevi il classico lieto fine hollywoodiano. Il film dice che la lotta solitaria non dà sbocchi. Per potersi ancora guardare l’un con l’altro, stare insieme, bisogna tornare a far germogliare la solidarietà. Ecco la provocazione».