Care amiche del gruppo del mercoledì,
ho letto, come sempre, con grande attenzione il vostro documento “Dei legami e dei conflitti. Che accade se l’Europa si prende cura?” e ne ho apprezzato, ancora una volta la tensione generosa a fare della vostra riflessione contributo al discorso pubblico. Vorrei cercare di mettere a fuoco una questione di nominazione e di simbolico, per corrispondere, per quanto mi è possibile, alla vostra esposizione. Uso il termine esposizione non a caso, perché in questo momento storico mi sembra che ci sia un’eccessiva esposizione di quello che si potrebbe definire il corpo della miseria sociale: in forma di vittime, però, dell’impoverimento complessivo, delle misure o mancate misure nei confronti della crisi economica di anziani, donne e bambini, curiosamente assenti gli uomini cassaintegrati, licenziati, senza lavoro, se non che quando essi rientrano nella categoria dei giovani; oppure vi è silenzio e quindi sostanzialmente una rimozione. Rimozione della materialità della vita, del suo farsi e disfarsi materiale, innanzitutto.
La miseria fa paura, a chi la vive e a chi potrebbe viverla e si sporge su di essa come su un baratro che tutto inghiotte, e ciò che la accompagna, insieme alla paura, è la vergogna. Uno dei sentimenti più difficili da decostruire quando si vive la miseria è quello dell’esserne in qualche modo responsabili: è colpa mia se non sono riuscito a mantenermi il lavoro, è colpa delle mie scelte se non sono stata capace di essere previdentemente formica per i tempi duri, è colpa mia se non riesco a trovare lavoro, non sono abbastanza brava, non sono abbastanza meritevole di lavoro, esistenza libera, diritti. Uso volutamente la parola “miseria” piuttosto che “povertà”, perché la povertà è dignitosa: tutte, tutti abbiamo nella nostra memoria storica la povertà dignitosa di Renzo e Lucia, e mi sono trovata a pulire ossessivamente i pavimenti mentre pensavo va bene la miseria, ma almeno dignitosa!Mentre la miseria è abietta, ha a che fare con il corpo e la sua caducità, e riguarda la vita individuale, non diviene, non riesce a diventare parola pubblica.
Il discorso pubblico appare abitato dal fantasma della miseria, da cui l’impulso è quello di rifuggire quanto più possibile, e occorre invece nominarla e farla divenire lievito di cambiamento: occorre insomma prendersi cura delle parole, e cambiare l’ordine con cui esse vengono pronunciate. Non penso sia affatto vero ad esempio che in Italia non c’è lavoro: all’università, dove insegno, vi sarebbe moltissimo bisogno di altre persone (qualcuno ha mai fatto il conto, come si fa per altri settori, di quanto sia diminuito il personale in un decennio?): ma non ci sono i fondi o altrimenti non si trova – o non si vuole trovare? – il denaro per questo. Quindi lavoro c’è e moltissimo, chiunque lavori all’università, come nella scuola, nella sanità e così via sa quanto e come si supplisce a ciò, ma non si trovano i soldi per pagarlo, il che è tutto un altro ordine del discorso.
Occorre in altri termini rompere uno strano e ambiguo discorso pubblico che tende, avete ragione, a privatizzare le vite, rendendo privata la miseria, per incasellarla così piuttosto facilmente nel ruolo della vittima, in modo da non nominare la realtà o nominarla in modo errato e fuorviante. E tende anche a privatizzare il lavoro di cura che sta sostenendo i legami sociali tra le persone: diviene mia personale la scelta di prendermi cura dell’università nel rapporto con le e gli studenti, non qualcosa che riguarda l’istituzione. Diviene personale la scelta di difendere il proprio posto di lavoro, non qualcosa che riguarda la collettività. La privatizzazione passa anche da lì.
Vi è invece un altro ordine del discorso, che sta tenendo insieme il tessuto delle relazioni, ciò che voi definite il legame sociale: quello del lavoro di cura della vita di quante e quanti vivono la disoccupazione, la cassaintegrazione, i contratti di solidarietà, la riduzione sempre più progressiva del reddito, il mancato orizzonte occupazionale, le istituzioni sempre più dissestate. Donne e uomini che comunque e nonostante tutto si prendono cura delle proprie vite e delle vite delle persone con cui si vive e che, ad esempio, occupano spazi come il teatro Valle a Roma, per farli rimanere di tutti: è fatica grande quella di prendersi cura di sé e della vita in queste condizioni, fatica che non riesce a trovare parole per dirsi, e che provoca rabbia e, almeno in me, bisogno di rivoluzione. Quando al primo incontro di Paestum ho chiesto al gruppo delle donne che stavano discutendo sulla rappresentanza come pensavano di rispondere al mio bisogno – non desiderio, proprio bisogno! – di rivoluzione, non ho avuto risposte. Ma il bisogno di rivoluzione ce l’ho, lo vivo a partire da me, e spesso ho provato, pure se distantissima da me e forse mai lo farei davvero, la voglia rabbiosa di tirare pietre: certo non contro le persone, ma contro le cose, contro gli emblemi del capitale che sta stringendo in una morsa ferrea le nostre vite, sì.
Altrettanto importante credo sia maneggiare con molta attenzione la parola Europa, termine denso di frontiere, certo non di cura, al punto che esito ad usarla: e il Mediterraneo? Non è Europa? E l’Africa? Non è Europa, con tutto quello che essa vi ha portato di colonialismo e sfruttamento? Penso a quanto ha scritto su di ciò Igiaba Scego, quanto lei ed altre sono riuscite a raccontare e quindi a nominare con esattezza di quella rete complessa e complicata di rapporti tra l’Italia e la Somalia, ad esempio, e di che cosa ciò significhi per chi cerca di attraversare il mare.
Rispetto a questo ordine del discorso molta vita c’è nelle relazioni, nei legami che corrono da un capo all’altro del paese: non avrei potuto vivere questi anni difficili senza le relazioni che mi hanno sostenuto, non potrebbe vivere l’università senza l’attenzione e la cura di quanti la abitano consapevoli dell’importanza che essa ha nel fare società, non avrebbe potuto sopravvivere il paese intero senza questa gigantesca e frammentaria opera di cura, che non trova le parole per raccontarsi e fare di questo discorso pubblico. Perché la miseria, lo scacco, toglie le parole, ma anche qui occorre capovolgere l’ordine del discorso: se scacco è, occorre sia ragionato – il riferimento è a Carla Lonzi -, se cura è, occorre sia nominata e riconosciuta e trovare uno spazio discorsivo per quanto si vorrebbe diverso e migliore, e voi avete sicuramente lavorato in questa direzione.
l Gruppo delle femministe del mercoledì propone di far dialogare Leggendaria numero 107 (speciale dossier cura) e Via Dogana numero 110. Saranno con noi autrici/autori degli articoli usciti sulle due riviste.
SABATO 15 NOVEMBRE
alla Casa Internazionale delle donne, via della Lungara , Roma, dalle ore 11 alle 17.