The Times They Are a Changing’ . Il posto fisso non c’è più “perché è cambiato il mondo attorno a noi. E di fronte a questo un partito di sinistra non fa un dibattito ideologico sulla coperta di Linus, ma prende in carico chi il lavoro lo ha perso”. L’ha ripetuto il capo del governo a Firenze, mentre, davanti alla Leopolda, protestavano gli operai della Thyssen di Terni, evidentemente poco rassicurati dal suo discorso.
Altra scena, questa volta a Brescia, dove Matteo Renzi è andato a parlare agli imprenditori e dove centri sociali e Fiom l’hanno contestato. “Dobbiamo evitare un rischio pazzesco: c’è un disegno per dividere il mondo del lavoro. Non esiste una doppia Italia, dei lavoratori e dei padroni: c’è un’Italia unica e indivisibile e questa Italia non consentirà a nessuno di scendere nello scontro verbale e non solo, legato al mondo del lavoro”.
Il manager che trova subito un altro posto altrettanto altisonante, che se ne va con la valigia piena di stock option, che ottiene una buonuscita d’oro non si distinguerebbe in nulla dal metalmeccanico al quale stanno chiudendo la fabbrica, dal lavoratore al quale rinnovano ogni tre mesi il contratto nel call center?
Questo è il mirabolante racconto dell’Italia renziana. Se volete, una distorta interpretazione del “patto dei produttori” che circolava negli anni Settanta (nel Pci di Alfredo Reichlin, non a caso “ispiratore” anche del partito della nazione…). Ma il registro era un altro: lavoro e produzione contro parassitismo e rendita finanziaria. Produttore come termine (caro a Bruno Trentin) usato per indicare nella figura del lavoratore non un vassallo, non un inferiore ma un individuo fiducioso di potersi realizzare nel suo mestiere. E allearsi agli imprenditori più illuminati.
Adesso, secondo il premier e – immagino – per via della crisi, avremmo una vicinanza tra il finanziere, il manager, il padroncino della fabbrichetta, e il lavoratore: operaio, esodato, creativo, precario, extracomunitario, badante. E gli altri che coprono (o non riescono a coprire) i mille lavori di questa nostra società.
Un racconto interclassista dell’Italia di oggi, di un’Italia che ha visto, nel 2013, ogni due giorni e mezzo il suicidio di imprenditori e disoccupati.
Arriva qualche arrabbiato dei centri sociali a rompere il lieto fine del racconto. “Vogliono spaccare il Paese”.
Il Presidente della Repubblica, Napolitano, durante la celebrazione della festa delle Forze Armate, rincara la dose: “Vi è il rischio che, sotto la spinta esterna dell’estremismo e quella interna dell’antagonismo, e sull’onda di contrapposizioni ideologiche pure così datate e insostenibili, prendano corpo nella nostra società rotture e violenze di intensità forse mai vista prima”.
Dobbiamo espungere il conflitto? Temo che così la democrazia non ci guadagni. Renzi, con i suoi strattonamenti (adesso scricchiola anche il patto del Nazareno…), qualche conflitto in modo sgraziato ha provato a aprirlo, cercando di interpretare la corrente anti-establishment in chiave diversa da quella del movimento anti-Europa. Però l’ha fatto con le tecniche dello sbruffone, senza attenzione, senza cautela, senza cura.
Anche se bisogna riconoscergli di aver risvegliato un sindacalismo che pareva accontentarsi delle rendita di posizione difendendo i garantiti e i protetti. Magari, adesso, il sindacato sarà costretto a inventarsi qualcosa; a discutere delle forme di cogestione, di collaborazione come in Germania. Oppure, dovrà finalmente guardare a quella generazione che, pur attrezzata con tecniche audiovisive high-tech, pena a trovare la strada dell’azione collettiva. Un leader emergente come Landini saprà gestire una lotta “dura” ma capace delle aperture e della mobilità che spiazzano l’avversario?
Se no qualche incendio, cappucci alzati, lancio di sassi, esplosione di bombe-carta. Ma questo non basta a dimostrare la radicalità del conflitto necessario.