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Malala Yousafzai è stata colpita in viso da due proiettili talebani mentre l’autobus la stava riportando a casa da scuola. L’evento, senza dubbi drammatico, è diventata un caso, come lo fu quello di Amina, la nigeriana condannata alla lapidazione per adulterio e poi graziata a causa della campagna mondiale a suo favore che per fortuna le salvò la vita, ormai quasi dieci anni fa. Malala è stata portata in Gran Bretagna e operata e intanto i media lavoravano al caso. I talebani pure, perché da tempo hanno cambiato la loro tecnica di comunicazione contribuendo a creare una nuova narrativa di guerra. Cogliendo l’opportunità che l’attenzione intorno alla ragazza creava, le scrissero una lettera aperta, in cui si rammaricavano dell’accaduto giustificandolo sostanzialmente con il fatto che la ragazze a scuola proprio non ci dovrebbero andare o che almeno frequentassero le madrasse.
Malala e’ stata presa sotto l’ala protettrice del governo statunitense e della famiglia Obama (un Nobel per la pace che stava per supportane un altro): sotto l’altra ala, quella del padre, la ragazza ha portato avanti la sua battaglia per il diritto delle bambine e dei bambini all’educazione e non solo in Pakistan. Lo stesso governo, che già anni fa ha varato un piano per l’istruzione, ed è supportato in maniera massiccia dai donatori nel settore, sponsorizza Malala pienamente. Si tratta di una eccellente opportunità: fondi, visibilita’ e una mano tesa verso la rappresentazione di un paese che non e’ solo violenza e terrorismo.
Malala, insieme all’indiano Kailash Satyarthi (impegnato nella lotta contro il lavoro minorile), ha vinto in Nobel per la pace. E si e’ subito augurata che alla cerimonia di consegna a Stoccolma ci siano anche i due presidenti dei rispettivi Stati, da sempre impegnati in un conflitto senza fine. Doppio colpo dunque per i giurati di Stoccolma: incoraggiare l’impegno a favore dell’infanzia e creare un ponte simbolico tra Pakistan e India.
Ora, non vi e’ dubbio che il Pakistan e’ uno dei paesi in cui il tasso di analfabetismo e di mancato accesso alla istruzione colpisce circa il 74% della popolazione (in maggioranza donne e bambini); che visto il tasso di fertilita’ (5.4%), le scuole non sono mai abbastanza; che, sebbene coraggiosa, la riforma del settore educazione chiedera’ anni perche’ ci siano risultati visibili su larga scala. E che soprattutto, la tradizione culturale repressiva e maschilista, integralista e violenta nonostante le molte voci di dissenso, fa delle bambine vittime predestinate di matrimoni precoci, aborti cruenti, delitti d’onore, fame, disoccupazione, ignoranza.
Ma quello di Malala e’ un uso strumentale di una ragazza minorenne, a cui penso avrebbe fatto meglio un periodo di riposo fuori dalla cronache, anziche’ essere lanciata sulla ribalta internazionale. A suo nome c’e’ gia’ una fondazione e i partiti politici pakistani come il PPP (brand della famiglia Bhutto) gia’ hanno iniziato la gara per farla salire sul carro delle prossime elezioni. Il Nobel a Malala, che non toglie nulla al suo coraggio, alle sue freschezza e combattivita’, oscura il lavoro quotidiano delle molte attiviste che da anni in Pakistan lottano per i diritti delle donne e delle bambine, a cui le pagine dei giornali dedicano appunto una attenzione di carta. Donne che non riescono nemmeno ad avere il visto per partecipare a meeting in Europa o negli Stati Uniti, che hanno i capelli grigi e lavorano nel deserto del Cholistan o sulle montagne del Gilgit & Baltistan, per fare lezione a bambine e bambini delle comunita’ ai confini con con l’India e la Cina, per alfabetizzare le adulte, per far si’ che le piu’ piccole non siano merce di scambio tra famiglie. Un lavoro oscuro, appunto, ingiustamente fuori dai riflettori.
Malala e’ stata colpita dall’effetto “Aquafan”, ovvero l’essere capitata per una serie di coincidenze disgraziate per lei, fortuite per altri, come quando ci si trova in un parco acquatico e si scivola piu’ velocemente degli altri perche’ il proprio scivolo ha piu’ acqua. Ma e’ solo un caso. A volte andrebbero premiate le moltitudini, come le donne di Kobane, le attiviste e le transgender del Pakistan, le madri di Gaza.
Monica Luongo