Pubblicato sul manifesto il 14 ottobre 2013 –
Il petrolio e l’enorme mole di denaro che produce, oltre alle religioni, alle ideologie, e altri tipi di interessi economici e geopolitici, può essere un buon metro di misura per cercare di capire come va il mondo. In particolare in quella zona martoriata del Medio Oriente dove la guerra civile infuria tra kurdi e Isis, in Siria, in Iraq e sempre più drammaticamente in Libia.
Ho letto un articolo interessante – come molte altre volte – sull’ultimo numero di Internazionale: David Samuels, giornalista di Bloomberg Businessweek (Usa) racconta con molti dettagli la storia di una gigantesca ruberia globale ai danni delle ingentissime risorse prodotte dal petrolio in Libia, dopo l’eliminazione di Gheddafi. Ma anche prima, negli anni in cui il dittatore aveva scelto la linea di fare affari con i vecchi nemici occidentali (e fa riflettere che un assiduo ma discreto frequentatore della Libia in quegli anni sia stato anche Tony Blair, per conto della banca Jp Morgan Chase).
Risorse libiche rapinate a man bassa da consulenti finanziari di istituti occidentali senza scrupoli. Ma anche tantissimo denaro che gli stessi governanti libici del dopo-Gheddafi hanno potuto elargire a fini di consenso a vasti strati della popolazione, e che paradossalmente hanno finito per finanziare le armi delle milizie che oggi sconvolgono Tripoli e Bengasi e mettono in scacco qualsiasi autorità più o meno democratica e legale.
Ancora la rendita petrolifera è leva del protagonismo dei paesi del Golfo produttori, che hanno finanziato il mostro Isis, a quanto si capisce – io capisco – contro Assad ma anche contro quella parte più laica e democratica della rivoluzione siriana contro il dittatore che non è certo benvista dai signori del petrolio.
In un libro per me fondamentale del 2009 – L’incontro delle civiltà, Tropea – Youssef Courbage e Emmanuel Todd prevedevano l’aumento dell’instabilità sociale e del cambiamento nelle società musulmane e arabe dovuto a fattori culturali – alfabetizzazione e più cultura – e al rifiuto da parte femminile del vecchio ordine familiare (basta con i molti figli e la subordinazione ai maschi). Previsione puntualmente verificate con l’esplosione delle “primavere arabe” due anni dopo. Ma i due autori – demografi e sociologhi – avvertivano delle distorsioni indotte dalla presenza dell’alta rendita petrolifera in queste aree. Uno strumento potente in mano a dittature di vario tipo per soffocare ogni istanza di cambiamento. O “acquistando” il consenso di strati popolari, o oggi finanziando soggetti come l’Isis e varie fazioni armate che si assumono il compito della repressione, come sta succedendo contro i kurdi e il loro esperiemento di autogoverno basato su valori più laici, tolleranti e democratici (ne ha scritto sul manifesto Sandro Mezzadra, mentre on line si trova un altro interessante articolo di David Graeber).
Le cronache economiche sono ora molto preoccupate del calo del prezzo del petrolio, e si discute sempre di più dell’enorme cambiamento geopolitico prodotto dal fatto che gli Usa nel giro di pochissimi anni, grazie alle nuove tecniche di estrazione, sono diventati autonomi dal punto di vista energetico e stanno anzi diventando esportatori di gas. Ci sarebbe da augurarsi che anche il venir meno della dipendenza dai padroni del petrolio, e il vacillare del potere politico basato sull’oro nero, contribuiscano alla sconfitta degli estremismi e del terrorismo fondamentalista, sostenuto come è sempre più evidente dal demone del petrodenaro, oltre che dal fanatismo terrorizzato di uomini che vedono crollare intorno a loro i vecchi ordinamenti sociali e familiari patriarcali.