Un turista occidentale potrebbe scambiare la Islamabad dell’ultimo mese per una sede di una performance della Biennale di Architettura di Venezia: 500 container sono stati infatti piazzati nei punti principali della capitale pakistana, utilizzati per proteggere i palazzi del governo, gli hotel di lusso dove alloggiano gli stranieri, le ambasciate e le arterie principali di accesso alla città. La ragione di questa “performance” artistico-logistica, per il lettore europeo che non ne sa quasi nulla, è il sit-in permanente che da un mese sta tenendo in scacco la città. Due dei partiti all’opposizione, il Pakistani Teherek-e-Insaf (PTI) – capeggiato dall’amato ex campione di cricket Imran Khan – e il Pakistani Awami Tehereek (PAT, il cui leader Mohammad Tahir-Ul Qadri professa l’avvento di un welfare state di matrice religiosa), hanno iniziato la loro protesta con una lunga marcia che è partita da Lahore proprio lo scorso 14 agosto, chiedendo anzitutto le dimissioni del primo ministro Muhammad Nawaz Sharif e l’annullamento delle elezioni del 2013, inficiate dai brogli. Lunga la vicenda e non utile qui da riassumere in poche parole. Basta dire qui che al momento c’è una Jirga, ovvero un consiglio di “saggi” (ovvero deputati esclusivamente di sesso maschile) che sta mediando tra il governo e le parti per giungere a una mediazione.
Che succede intanto in città: che da un mese ci sono 20.000 poliziotti richiamati da tutto il Punjab, che dormono nelle scuole (dunque i bambini non stanno andando a scuola, non in tutte ma insomma un buon numero), i manifestanti sono stati spostati dallo spazio antistante la residenza del Pm al D-Chowk, un’area vicina, dove ormai sono accampati in attesa del rally serale, vivendo in un impressionante e precario stato di igiene. I supporter dei due partiti si sono installati in zone separate, va dato merito al PAT di aver organizzato lezioni mattutine per i bambini e anche corsi di pittura per gli appassionati, oltre a un pallido tentativo di mantenere la zona pulita. La scorsa settimana i monsoni che hanno creato disastri nel resto del Punjab, hanno allontanato molti e ora parte della opinione pubblica dice che quelli che restano sono pagati per non far perdere la faccia a Qadri e Khan.
Insomma, la protesta si ripercuote nella capitale, bloccando il traffico e il piccolo commercio, i container ne hanno ridisegnato i contorni e il governo sembra giocare sull’effetto noia e stanchezza, piuttosto che usare la mano forte.
Quello che mi ha colpito della vicenda va al di là della condivisione o della critica ai manifestanti o al governo. Quando una settimana fa ho fatto il primo giro al D-Chowk mi è venuto in mente il vecchio “Fragole e sangue”, il film di Stuart Hagmann che negli anni Settanta appassionò i giovani della rivolta studentesca: ovvero come prendere consapevolezza politica da una iniziale e magari superficiale adesione a un movimento. E’ la prima volta che in Pakistan dopo il 1947 si scende in piazza in maniera massiccia per protestare (e per una volta non per bruciare libri…): giovani e non sono arrivati da tutto il paese a Islamabad; a prescindere da come finirà quella che mi sembra nuova è la forma della protesta politica, del ritrovarsi insieme, di bivaccare giorno e notte. Magari non ci sarà un risultato politico in senso concreto di questo agire, ma di sicuro non si potrà tornare indietro, a quella forma di silenzio prono che vedo in molte facce pakistane (a parte la stretta cerchia di eruditi, intellettuali, opinionisti) di fronte al fatto che non c’è lavoro, non c’è energia elettrica a sufficienza, che il paese vive in un permanente stato di polizia.
La narrativa, il modo di raccontare quello che vive il paese in questo momento nelle sue molte facce, sta cambiando: l’esercito media con i manifestanti (interesse politico? Non importa, è qualcosa di diverso), uno dei capi del movimento talebano del Pakistan (TTP) Asmatullah Muaueya annuncia che i talebani daranno tregua al paese e combatteranno solo ai confini con l’Afghanistan, chiedendo al contempo il rientro di parte dei rifugiati in Nord Waziristan (da dove sono stati “evacuati” causa una gigantesca operazione militare anti terroristica). A leggere i giornali oggi si aveva una prima impressione di confusione, quasi che a parlare fosse il capo di una agenzia delle Nazioni Unite. Intanto il governo prende tempo, concede a Imran Khan il beneficio di molte richieste ma di sicuro non le dimissioni del premier. Stamane sul quotidiano Express Tribune (www.tribune.cm.pk ) la sceneggiatrice Nazneen Sheikh commentava ironicamente che l’affascinante Imran Khan faceva il suo comizio masticando chewing gum.
Non c’è che dire: anche per questo la forma è contenuto, vecchio slogan che non riesco a dimenticare. E con la forma cambiano le parole da usare, i gesti che si compiono, le consapevolezze che si armano e magari anche le decisioni che si prendono. Di sicuro cambia l’idea del “pensarsi insieme”, che al di là dell’elemento religioso qui sembra la vera novità.
Monica Luongo