pubblicato sul manifesto il 26 agosto 2014 –
Molto è già stato detto sulla faccenda del Pil, il prodotto interno lordo, il cui calcolo sta per essere modificato – secondo regole europee – includendo il valore economico anche di transazioni eticamente discutibili come quelle relative all’economia illegale o alla prostituzione.
Voglio dare anch’io un piccolo contributo perché la discussione – una delle non molte interessanti intorno alla triste scienza economica – non venga rapidamente archiviata tra le tante divagazioni agostane, o seppellita dal senso di sgomento prodotto dalle notizie cariche di orrore che ci circondano da molti angoli del mondo, e persino dal vicinissimo (nel mio caso) quartiere romano dell’Eur.
Ho scoperto leggendo il Corriere della sera di domenica che anche una signora di buona famiglia capitalista come Letizia Moratti appartiene a un club internazionale “per l’economia positiva”, fondato da Jacques Attali, il quale critica radicalmente il concetto stesso di Pil.
Con qualche moralismo Letizia Moratti insorge contro il computo del denaro illegale nella potenza economica nazionale, e propone piuttosto di conteggiare il lavoro del Terzo settore e del volontariato. Non senza citare il famoso discorso di Robert Kennedy che già nel ’68 (ah, anno fatale…) osservava come il Pil misura “tutto, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”.
E’ un testo, in effetti, che meriterebbe di essere ricordato più ampiamente. Per esempio là dove dice che il Pil “cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari… non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza… ».
Insomma, la critica a quella paroletta che ci assilla ogni giorno con i suoi zero virgola in più o in meno dai quali dipenderebbe tutto il nostro futuro, può essere un grimaldello simbolico potente per farci capire che un altro mondo e un altro modo di concepire l’economia non solo è possibile ma è assolutamente necessario.
Il mio contributo qui si limita a ricordare che negli ultimi anni in Italia è stato soprattutto il femminismo a avanzare questa critica lanciando in due convegni a Paestum la parola d’ordine primum vivere : ciò che misura il senso del lavoro, del mercato, delle attività relazionali private e pubbliche, in definitiva è la qualità, la ricchezza – o la povertà, non solo materiale – delle nostre vite. E per comprendere questo punto di vista radicalmente diverso da quello dominante è essenziale vedere quanta cura e quanto lavoro di cura – quasi del tutto ignorati dal Pil – siano necessari perché le cose – che già stanno andando piuttosto male – non degenerino in un orrore indistinto.
Qualche anno fa in un incontro alla Camera del Lavoro di Milano, insieme a numerose amiche femministe (cito solo Maria Luisa Boccia, con la quale introducemmo il confronto) e agli amici dell’Ars (associazione per il rinnovamento della sinistra) cercammo di convincere il segretario della Fiom Maurizio Landini, e altri esponenti della Cgil, che in questo nesso tra lavoro, cura e vita poteva essere trovata una nuova leva, un nuovo desiderio di cambiamento per un nuovo tipo di conflitto. Landini si era mostrato interessato ma, se non ricordo male, disse anche di non essere sicuro di aver capito bene.
Il momento di provare a capire, però, è arrivato già da molto tempo.